Catalina De Sanctis: «Vi racconto l’orrore di crescere con gli assassini dei miei genitori desaparecidos»

Corriere della sera – La 27 ora 22 ottobre 2021

Virginia Nesi

A 45 anni dal golpe militare argentino, sono oltre 300 le bambine e i bambini rapiti appena nati che non hanno ancora conosciuto la famiglia d’origine. Sanno solo chi sono i genitori “barbari” a cui sono stati affidati. In occasione della giornata per il diritto all’identità, celebrata oggi in Argentina, l’intervista in esclusiva a una nipote “restituita”. In un reportage, suddiviso in tre tappe, la lotta mai interrotta delle Abuelas de Plaza de Mayo per avere giustizia

Avvicina le immagini alla telecamera, le guarda prima di riporle nella borsa. «Questa è una foto di mia mamma, una fotocopia, da bambina assomigliavo molto a lei», dice. «Qui è a scuola, alcune compagne di classe non volevano farsi vedere», aggiunge. Con il dito indica dei pezzettini di carta che coprono il volto di due studentesse. Delle fotografie regalate vuole prendersene cura affinché non si rovinino, trovare presto un luogo dove riporle per «averle vicino». Lei è Laura Catalina De Sanctis Ovando, 44 anni, figlia di desaparecidos, ritrovata a seguito delle ricerche delle Abuelas de Plaza de Mayo, l’organizzazione non governativa creata nel 1977 per cercare le bambine e i bambini, ormai adulti, nati in prigionia durante i sequestri della dittatura militare (1976-1983), e dati poi in adozione a coppie vicine al regime. Allora il governo de facto portò a termine quello che i militari chiamarono il «Processo di Riorganizzazione Nazionale», un piano basato sulla politica del terrore per combattere la sovversione. In Argentina sparirono oltre 30mila persone di tutte le età. Il Paese li denominò desaparecidos, gli scomparsi. Come riporta Nunca más, il rapporto della Commissione nazionale sulla scomparsa di persone (Conadep), si tratta di uomini e donne «catturati, torturati e sepolti come non identificati o gettati vivi in mare da aerei della Marina nei soprannominati voli della morte». Di molti non si sono ancora trovati i resti.

Bambini come bottini di guerra

Sono circa 500 i neonati rubati come “bottino di guerra” e registrati poi come figli legittimi dei membri delle forze repressive. Centotrenta i nipoti e le nipoti ritrovate sinora dalle Abuelas. Gli ultimi due risalgono al 2019. Le immagini che ci mostra Catalina tramite Zoom rappresentano i ricordi di un passato per molto tempo a lei estraneo. Per almeno 30 anni, sa di essere María Carolina Hidalgo Garzón, nata il 15 di agosto del 1977 nell’ospedale militare di Campo de Mayo. Eppure dentro di sé ammette di aver avuto sin da piccola dubbi e incertezze sui suoi apropiadores. Chiama così le due persone che l’hanno cresciuta. «Chiedevo com’è stata la gravidanza perché non avevano alcuna foto– dichiara –, mi dicevano che ero nata di sette mesi, poi di otto». Ha vent’anni quando sospetta di non essere loro figlia. Quando vede in televisione una campagna delle Abuelas è quasi certa di essere nipote desaparecida. Ma la spaventa capire, investigare.

Il bisogno di conoscere la verità, la paura di saperla

«L’uomo che mi ha cresciuto mi sembrava perverso e poteva aver commesso quegli atti di cui la gente parlava– racconta Catalina –. Mi sono anche chiesta se lui poteva aver stuprato mia mamma. Staccai da tutto, prima o poi avrei scoperto la verità, avevo bisogno di conoscerla, ma non era quello il momento». Quando ne parla con la donna che l’ha cresciuta, lei alla fine lo ammette. Le dice che è figlia di persone considerate sovversive: suo padre era morto in uno scontro mentre i nonni non volevano saperne niente. Gli apropiadores mentono assicurandole di averla salvata. Se avesse voluto sapere chi erano i suoi genitori, loro, “i genitori affidatari”, sarebbero andati in carcere. La paura di conoscere la verità paralizza Catalina. Lei decide di lasciar perdere. Poi qualcosa nella sua mente cambia: «Mi iniziava a pesare indicarli come padre e madre, il modo in cui esigevano che li difendessi, tanti pensieri mi stavano ammalando».

Campi di detenzione e torture

Per capire bene lo sviluppo di questa storia torniamo indietro nel tempo di quasi mezzo secolo. Siamo nel 1974. Raúl studia antropologia, Miryam psicologia. Sono due fidanzati militanti dei Montoneros, organizzazione di guerriglieri legata al movimento peronista. Due anni dopo, nel 1976, il generale Jorge Rafael Videla, guida il colpo di Stato militare che spodesta Isabelita Perón. Aumentano i rastrellamenti nelle case contro i cosiddetti sovversivi. Sono studenti, attivisti, operai, intellettuali, sindacalisti, giornalisti le persone prese di mira. Uomini e donne che sostengono la giustizia sociale, pensieri politici socialisti e comunisti. Il sequestro diventa il metodo per arrestare persone per «ragioni di sicurezza nazionale». Raúl e Miryam decidono di trasferirsi in un’altra casa. Ad aprile del 1977 Miryam viene sequestrata e portata in un centro clandestino di detenzione. È incinta di sei mesi quando affronta le torture dei militari. A maggio dello stesso anno, rapiscono anche Raúl. Quattro mesi dopo, Miryam, con l’aiuto di un giovane militare, invia una lettera alla famiglia per informare che è nata sua figlia: Laura Catalina. Lei non sa che Raúl è stato sequestrato. Raúl non avrà mai la certezza di essere diventato padre.

La data del parto falsificata

Del giorno in cui è stata portata via da sua madre, Catalina possiede informazioni vaghe. «Devo essere nata tra l’11 e il 15 agosto, la mia apropiadora dice che sono nata il 15 e lei mi ha presa il 22», continua. In realtà il 15 agosto 1977 è la data truccata in cui riportano il giorno del presunto parto. Lei sceglie solo dopo l’11 come data di nascita. Nel 1982 i nonni denunciano alle Abuelas la scomparsa di Miryam e Raúl e, a seguire, il gruppo giuridico delle Nonne presenta a sua volta una denuncia nel Juzgado Federal N4 della città di Buenos Aires. Le denunce si sommano alle chiamate anonime che avvertono del rapimento di una bambina. La causa giudiziale aperta intanto va avanti. Un giudice convoca Catalina e arriva poi l’ordine di prelevare alcuni suoi oggetti personali. «Prima mi chiesero se desideravo fare un test del Dna, ma non ne volevo sapere», ammette. Le dava terrore conoscere la verità, «farsi carico di quel peso». «Vennero a casa mia e si portarono via un paio di calze, uno spazzolino e della biancheria intima», dice. È il 2008 e i risultati del Dna confermano che lei è figlia di desaparecidos. Intanto al Banco Nacional de Datos Genéticosprima banca creata al mondo per la raccolta di dati genetici, i nonni di Catalina hanno già lasciato i loro campioni di sangue. «Ho dovuto prendere le distanze per rendermi conto di chi mi stava cercando, prendere consapevolezza del fatto che la mia apropiadora sapeva che avrebbero ucciso mia madre. Ho rotto il legame con loro e ho contattato la mia famiglia – continua–. Li considero gli assassini dei miei genitori». Mentre parla Catalina si tocca più volte i capelli, svia lo sguardo dalla telecamera per trovare le parole giuste.

«Sono grata alle Abuelas»

Quando recupera la sua identità, scopre che i nonni che la cercavano sono già morti. Nel 2010 conosce i famigliari, solo due anni dopo riceve un nuovo documento con il suo vero nome. «Sono grata alle Abuelas: se non avessi saputo la verità, sarebbe stata una vita sprecata. Avrei sbattuto la testa contro il muro per tante questioni senza capire che allora, il motivo per cui mi sentivo persa, aveva a che fare con l’appropriazione». Torna per un istante in silenzio. A farle male ora è il pensiero di non aver potuto essere «figlia dei suoi genitori». «Lo sono stata dei miei apropiadores, quello è stato il mio ruolo», precisa. Ma la ricerca della verità per lei non è ancora conclusa. Le manca recuperare i resti. «Non so se li troveremo: l’uomo che mi ha cresciuto, un ufficiale dei servizi segreti, disse al mio compagno che telefonò a dei suoi contatti per sapere se avevano fatto volare il pacco», precisa. Il pacco a cui si riferiva è sua madre. Il volo sono i viaggi aerei su cui venivano fatti salire i sequestrati per essere gettati nel Rio della Plata o nel mare. Montavano persone, scendevano desaparecidos.

Il negazionismo

Quasi cinquant’anni dopo i voli della morte, ancora in molti negano o sottostimano gli avvenimenti di quel periodo storico. «È un tema attuale non solo per le ferite delle vittime, ma per la questione ideologica. Il pensiero negazionista è in continua evoluzione e si allontana dalla verità», dichiara Catalina. Il passato pesa ancora sul presente. Le bugie delle persone che l’hanno cresciuta hanno inquinato la verità storica, oltre che la sua infanzia. La definisce una costruzione la sua identità, qualcosa che lei continua a formare attraverso le scelte quotidiane, «ma adesso posso scegliere chi voglio essere, se non avessi saputo niente, avrei avuto l’illusione di continuare a essere qualcuno a cui manca qualcosa». Quando parla del bisogno di capire, Catalina si definisce una persona curiosa, «non voler sapere significa negare». Ma accettare la realtà provoca anche una ferita profonda, difficile da livellare, sopra cui strati di dolore si alternano a strati di coraggio. Ancora oggi, quando va a delle visite mediche e le chiedono se ha avuto in passato determinati problemi di salute o le malattie della sua famiglia, lei risponde di non saperlo. «Dico che sono nipote “restituita”. Questo già spiega tutto, non c’è bisogno di aggiungere altro – ammette–. Ci sono persone che temono che il passato possa chiudere loro delle porte perché resta un pregiudizio politico».

Famiglia allargata

Non si definirebbe una persona forte, Catalina De Sanctis, a dire il vero si sente «abbastanza debole». Eppure per lei essere nata da una mamma ammanettata e torturata è un evidente atto di forza. Sente di avere un compito ora: dignificare la vita, onorare i suoi genitori. Se al principio vedeva solo ciò che le mancava, adesso si concentra su ciò che ha, «molto e per fortuna con qualcuno con cui condividerlo». Sorride quando nomina il compagno Rodrigo, i suoi familiari, gli amici e le persone che sta conoscendo. Ma nella sua famiglia, oltre a due gatti e tre cani, ci sono anche gli altri nietos recuperados. «Ci capiamo, sappiamo cosa abbiamo vissuto– dice Catalina– ci consideriamo fratelli». Seppur abitano in province diverse, organizzano più incontri durante l’anno. Molti collaborano con le Abuelas nelle ricerche dei nipoti che mancano. Lei lavora al Conadi, la commissione nazionale per il diritto all’identità, nell’area genetica dove si ricostruiscono gli alberi genealogici dei gruppi familiari che cercano gli scomparsi. Quella dei nietos desaparecidos è a suo parere una problematica molto attuale perché «avere nipoti da trovare significa che ancora oggi il reato si sta commettendo». Tra gli scomparsi e le scomparse ci sono uomini e donne di oltre 40 anni. L’avanzare dell’età aumenta le difficoltà per rintracciare i figli rubati durante il regime. Recuperare l’identità significa scavare dentro se stessi, specchiarsi in un passato segnato dalla sofferenza. Quella delle nonne di Plaza de Mayo è una lotta contro il tempo mai interrotta, ma «adesso sta a noi continuare a cercare chi manca».