Continua la lotta per l’accesso all’aborto in Italia
Politico 2 ottobre 2022 – Giulia Blasi
Giulia Blasi è una scrittrice e attivista con sede a Roma, autrice del primer femminista “Manuale per ragazze rivoluzionarie” (Rizzoli, 2018) e “Rivoluzione Z” (Rizzoli, 2020), e “Brutta” (Rizzoli, 2022) .
ROMA – Interrogata sulle sue posizioni in materia di diritto all’aborto, la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha risposto che intende dare alle donne “il diritto di non abortire”.
La Meloni – in procinto di diventare il primo ministro donna nella storia del Paese – ha anche detto che intende “applicare pienamente” la legge 194, che protegge l’accesso all’aborto.
Questa scelta di parole può aver rassicurato una parte dell’elettorato, che altrimenti non avrebbe votato per un partito palesemente anti-choice. Ma le sue parole devono essere valutate anche rispetto alle sue azioni, alle politiche del suo partito a livello locale e a quelle dei suoi stretti alleati, che dipingono un quadro piuttosto diverso.
Allo stato attuale, per poter abortire, le donne italiane devono sottoporsi a una visita medica, osservare un periodo di attesa di sette giorni e sostenere una sessione di consulenza obbligatoria volta ad aiutare a rimuovere “eventuali ostacoli” a portare a termine la gravidanza.
Questa disposizione, che vede la volontà della persona incinta subordinata all’interesse pubblico per la sua fertilità, mette temporaneamente in secondo piano l’autonomia corporea della donna, sottoponendola alla decisione della comunità. A ciò si aggiunge l’allarmante numero di obiettori di coscienza negli ospedali e nelle cliniche di tutto il Paese – la media nazionale è calcolata intorno al 70%.
Così, in diverse regioni e persino nelle grandi città, soprattutto al Sud, è impossibile ottenere un’interruzione di gravidanza sicura e legale a causa della mancanza di operatori sanitari disposti a eseguire la procedura. In particolare, la legge 194 tutela l’obiezione di coscienza a condizione che non comporti un’interruzione del servizio, ma non stabilisce un numero massimo di obiettori per ospedale o clinica.
È anche importante notare che questa legge non protegge effettivamente il diritto all’aborto. Mentre lo spirito della legge, che è stata firmata nel 1978 e da allora è rimasta intatta, era quello di garantire che qualsiasi donna che volesse abortire potesse ottenerlo, la sua formulazione finale descrive il suo obiettivo come “proteggere la vita umana dal suo inizio”.
Purtroppo è quasi impossibile ottenere dati ufficiali sullo stato dell’accesso all’aborto a livello locale in Italia, soprattutto perché l’assistenza sanitaria è gestita a livello regionale e ogni regione gode di una notevole autonomia. Le autrici Chiara Lalli e Sonia Montegiove hanno cercato di mettere insieme i fatti nel loro libro del 2022 “Mai Dati”, raccontando il loro fallimento nell’ottenere un quadro completo dello stato dei servizi di assistenza sanitaria riproduttiva nel Paese, nonché la reticenza che hanno incontrato nel loro tentativo.
Tuttavia, questi problemi non sono necessariamente nuovi. Durante il recente mandato del Ministro della Salute di centro-sinistra Roberto Speranza, non è stata avviata alcuna indagine ufficiale per risolvere il problema e garantire alle donne la possibilità di accedere alla procedura o di farsi prescrivere la RU-486, un
farmaco abortivo che consente alle donne di interrompere una gravidanza nelle prime fasi, in modo sicuro e a casa.
Diverse regioni italiane gestite da amministrazioni di centro-destra o di destra – tra cui Piemonte, Umbria, Abruzzo e Marche – hanno limitato fortemente la distribuzione di questo farmaco nelle cliniche di pianificazione familiare, o ne hanno ristretto l’uso a un ricovero ospedaliero obbligatorio di tre giorni.
Tuttavia, dopo le elezioni della scorsa settimana, qualsiasi cambiamento per risolvere il problema dell’accesso all’aborto appare improbabile.
Ad esempio, le Marche sono attualmente governate da Francesco Acquaroli, membro di Fratelli d’Italia della Meloni, che si oppone esplicitamente all’aborto perché porterebbe alla “sostituzione etnica” degli italiani. Le donne bianche, a quanto pare, dovrebbero essere costrette a fare più figli per mantenere la supremazia bianca.
Questa linea di aumentare le nascite scoraggiando le donne dall’interrompere gravidanze indesiderate o non pianificate è stata ripresa anche da Letizia Moratti, ex ministro di Silvio Berlusconi e potenziale candidata del centrodestra a governatore della Lombardia.
Quando le è stato chiesto il suo punto di vista sull’obiezione di coscienza nella regione – che si aggira intorno al 60% – la Moratti ha evitato la domanda citando il calo della natalità in Italia, definendo l’aborto “una ferita e una decisione dolorosa” e dichiarando il suo sostegno alla piena applicazione della legge per sostenere le donne che possono sentirsi finanziariamente insicure. Attualmente è assessore regionale al welfare della Lombardia.
Nei giorni scorsi, i membri della direzione regionale ligure di Fratelli d’Italia hanno presentato una proposta di legge che sosterrebbe e aumenterebbe ulteriormente la presenza di attivisti anti-choice negli ospedali, con l’obiettivo di dissuadere le donne dall’interrompere gravidanze indesiderate.
Nel frattempo, a livello nazionale, il 16 settembre 2022 i leader della prossima coalizione di governo – Meloni per Fratelli d’Italia, Matteo Salvini per la Lega e Silvio Berlusconi per Forza Italia – si sono impegnati ufficialmente a promuovere il manifesto anti-choice presentato dall’organizzazione conservatrice ProVita & Famiglia.
ProVita è un gruppo di pressione potente e apparentemente ben finanziato che ha già visto diversi suoi membri eletti in Parlamento. È anche una delle forze dietro la presenza di volontari anti-choice negli ospedali e nelle cliniche di pianificazione familiare in tutto il Paese.
Le donne che mi hanno parlato a condizione di anonimato descrivono di essere state sottoposte a una notevole – e spesso intollerabile – pressione psicologica da parte degli operatori sanitari che hanno eseguito gli esami medici e psicologici obbligatori.
Ad alcune sono state raccontate vere e proprie bugie e sono rimaste traumatizzate. Ad altre sono stati offerti soldi da donatori anonimi per portare a termine la gravidanza.
Gli attivisti anti-choice sottolineano spesso che chi non vuole diventare madre può comunque portare a termine la gravidanza e dare il bambino in adozione. Una scelta che, pur essendo del tutto possibile, è probabilmente molto più traumatica per la persona incinta rispetto all’aborto, anche perché la legislazione italiana non contempla l’adozione aperta, rendendo impossibile per le madri naturali dei bambini adottati mantenere una relazione.
Gli attivisti per i diritti riproduttivi in Italia si battono da tempo per una riforma della legge 194, una riforma che difficilmente sarebbe passata durante l’ultima legislatura a causa della maggioranza social-conservatrice. E hanno buone ragioni per credere che il prossimo governo di destra combatterà attivamente l’accesso all’aborto facendo leva sulle molteplici debolezze della legge.
Sembra che, inevitabilmente, la lotta tornerà ancora una volta nelle strade.