Kihnu, l’isola delle donne: un caso (studiato) di «adattamento sociale» nel Mar Baltico

Corriere della sera – La 27 ora – 2 luglio 2021 Chiara Servegnini

Il faro di Kihnu non ha un guardiano, ma una guardiana. Nessuno ci fa caso: le cose, su questa isoletta del Baltico, funzionano così da tempo. Le isolane gestiscono le fattorie, riparano le auto, custodiscono le tradizioni. La chiamano «l’isola delle donne» e il motivo è semplice: dei circa seicento abitanti, solo trecento risiedono stabilmente a Kihnu. E sono, in larga maggioranza, femmine.

La pesca

Le donne qui fanno da sé dal XIX secolo, quando la pesca si è trasformata (anche) in un business transnazionale. Gli uomini partivano, stavano via mesi, talvolta non tornavano più. Le donne restavano. Da allora ci sono stati la fine dello zarismo (dal tardo ‘700 il governatorato dell’Estonia faceva parte dell’impero russo), la Rivoluzione d’Ottobre, l’ascesa e il declino dell’Urss. Gli uomini hanno continuato ad andarsene — come pescatori, carpentieri, soldati — e le donne hanno continuato a restare. Kihnu non è cambiata molto: è riuscita a preservare le sue usanze, dai canti tradizionali ai tessuti realizzati a mano. E così è diventata una meta turistica, soprattutto dal 2008, quando l’Unesco ha inserito la sua peculiare cultura nell’elenco dei patrimoni immateriali dell’umanità.

L’ipotesi del matriarcato

Per Kihnu si è parlato di «matriarcato». Ma, avverte Anna Casella Paltrinieri, docente di Antropologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano/ Brescia, il termine va usato con cautela. «J.J. Bachofen, lo studioso che l’ha coniato nel 1861, non era un antropologo, ma un giurista», spiega, «e il suo modello non ha un carattere scientifico: non è nato da una ricerca sul campo. “Matriarcato”», prosegue la docente «indicherebbe genericamente una struttura familiare in cui le donne hanno prevalenza, ma non dice nulla sul modo in cui questa prevalenza viene codificata, ad esempio in relazione all’economia o alla trasmissione dei beni. Questo, però, eventualmente fa la differenza».

Adattamento

Più che di matriarcato, a Kihnu Casella Paltrinieri ravvede i segni di una società che si è adattata in modo intelligente alle condizioni socio-economiche in cui si è trovata. «In molte civiltà rurali le donne, soprattutto anziane, giocano un ruolo determinante nella gestione dell’economia domestica, intesa in senso largo. Per esempio, in alcune civiltà del Maghreb, dove pure la divisione tra uomini e donne è marcata, erano queste ultime ad avere un ruolo importante nella combinazione dei matrimoni. Senza andare così lontano, tra i contadini padani di non molti decenni fa era comune trovare la “reggitrice”, la donna anziana che teneva, letteralmente, i cordoni della borsa dell’intera famiglia allargata».

La transizione verso il futuro

Il potere delle donne di Kihnu si fonda soprattutto sull’assenza degli uomini. Una condizione oggi sempre meno stringente. La pesca, con le nuove leggi a tutela della fauna ittica, non è più la stessa di un tempo; l’Ue ha spalancato agli estoni le porte di un intero continente; turismo e rivoluzione digitale hanno reso possibili scelte un tempo impraticabili. La somma di queste variabili fa sì che gli uomini non siano più costretti ad andarsene. Non tutti, non così a lungo. Per l’isola delle donne la transizione si preannuncia complessa. «Guardiamo ad altri casi in cui c’è stata una riformulazione forzata dei rapporti tra i generi, ad esempio nelle famiglie migranti o nelle società in cui donne un tempo confinate in casa hanno potuto costruirsi una carriera», sostiene l’antropologa. «In circostanze simili, si creano dei conflitti. Le donne di Kihnu si sono costruite enormi spazi di autonomia. La domanda è: riusciranno a tenerseli stretti?».