La Cura
Saluteinternazionale.info – Benedetto Saraceno
La Cura è azione pratica e affettiva al tempo stesso. Questa doppia natura
richiede competenze pratiche e competenze affettive. Spesso i famigliari
mancano delle prime e gli operatori sanitari delle seconde. La Cura è il nuovo
nome della pace.
La Cura è il nuovo nome della pace, dice don Renato Sacco di Pax Christi e la Cura
è stata al centro della tematica della marcia della Pace di Assisi di quest’anno. La
Marcia Perugia Assisi della pace e della fraternità svoltasi il 10 ottobre 2021 promuove la
diffusione della cultura della cura, premessa indispensabile per la transizione verso una
società e un’economia della cura. E, si dice, presto le Nazioni Unite inaugureranno il
decennio dedicato a celebrare la Cura.
Sempre di più si utilizza il termine Cura, e in modo spesso enfatico e retorico,
senza tuttavia che sia chiaro cosa ognuno intenda con tale termine divenuto
sinonimo di “pratica buona”. Ma quando le parole diventano troppo usate, quando
diventano polisemiche e passe-partout per dire qualcosa che non si sa bene più cosa sia e
che, comunque, per ognuno significa qualcosa di diverso, allora è arrivato il tempo di fare
una pausa: rivisitare con calma, con attitudine studiosa e critica il senso di una parola che
rischia di divenire parte dell’insopportabile vocabolario del politically correct.
“Dobbiamo sviluppare una mentalità e una cultura del prendersi cura capace di sconfiggere
l’indifferenza, lo scarto e la rivalità che purtroppo prevalgono. Cura delle giovani
generazioni, cura della scuola, cura degli altri, cura del pianeta, cura del bene comune e dei
beni comuni, cura dei lavori di cura, cura della città, cura dei diritti umani, cura della
democrazia… C’è bisogno di una politica e un’economia della cura”[1]. Come non
essere d’accordo ma cosa intendiamo quando usiamo la parola Cura in ognuno di questi
specifici e ben distinti universi: dai giovani al pianeta, dalla democrazia ai diritti umani?
Sembra, ancora una volta, che la parola Cura si riferisca ad un troppo vasto contenitore ove
si stipano universi che, ciascuno separatamente, meriterebbe analisi, definizioni, politiche,
strategie, interventi.
In questa breve nota mi limiterò a riflettere sulla nozione di Cura quando essa è
riferita a quelle pratiche di assistenza e accudimento necessarie a molti soggetti
disabili che, fino dalla nascita o nel corso della loro vita, perdono gravemente la propria
autosufficienza fisica e mentale. A ben vedere in italiano il termine Cura non allude tanto al
Prendersi Cura (come i termini Care/Caring in inglese) ma, piuttosto, alle azioni
terapeutiche esercitate dalla medicina. Infatti, quando in italiano vogliamo dire che
qualcosa o qualcuno cui teniamo molto ha bisogno di sollecitudine, di attenzione, di
assistenza diciamo che “ci prendiamo cura” di qualcuno o di qualcosa. Prendersi cura,
dunque, allude a un insieme di azioni di sollecita assistenza e di accudimento continuo.
“A livello più generale, suggeriamo, che la Cura venga considerata come una specie
di attività che include tutto ciò che noi facciamo per conservare, continuare e
riparare il nostro mondo in modo da potervi vivere nel miglior modo possibile. Quel
mondo include i nostri corpi, noi stessi e il nostro ambiente, tutto ciò che cerchiamo di
intrecciare in una rete complessa di sostegno alla vita”[2]. Questa citazione è da Joan Tronto
che in un saggio classico del femminismo sistematizza la nozione della Cura, la sua etica e la
sua politica.
Non è certo un caso che sia una femminista a offrire una lettura articolata e innovativa della nozione di Cura, anche contestando la idea che l’etica della cura appartenga al pensiero morale ed emozionale femminile in contrapposizione alla etica dei diritti tipica del pensiero morale e razionale maschile.
Non è così, e la cura invece è un insieme di pratiche che possono essere esercitate sia da uomini sia da donne: la Cura, dunque, non è tipica o naturale di un genere rispetto a un altro. Invece, troppo spesso la
femminilizzazione della cura viene ritenuta “naturale”, perché legata a un imprecisato
istinto materno. In tal modo il sistematico sfruttamento delle donne nelle attività di cura
viene santificato ma non riconosciuto come una risposta non retribuita a un diritto, il diritto
di coloro che hanno bisogno di essere accuditi e assistiti.
La cura non è né femminile né maschile perché essa è semplicemente umana. Un
bellissimo saggio della filosofa Luisella Battaglia ci aiuta a capire come il “caring” ossia il
prendersi cura non sia semplicemente un insieme di azioni dettate da una disposizione
d’animo ma una complessa componente della vita umana, una categoria centrale dell’analisi
sociale e della teoria filosofica. Si chiede la Battaglia, “Quali potrebbero essere, dunque, le
condizioni perché la cura venga incorporata nella nostra visione politica?
Sembra necessario, innanzitutto, ripensare profondamente i nostri assunti sulla natura umana,
riflettendo, in particolare su due concetti cruciali, dipendenza e autonomia”[3]. Le pratiche
della Cura costituiscono una immensa mole di lavoro che, tuttavia, “continua a essere
svolto, di solito senza retribuzione e senza che venga pubblicamente riconosciuto come
lavoro. Organizzarlo in modo da non sfruttare coloro che si prendono cura degli altri sembra
essere un altro compito centrale di una società giusta. “Un tempo si era soliti ritenere che
questo lavoro dovesse essere svolto da persone (soprattutto donne) che non erano cittadini
a pieno titolo e che, comunque, non avevano bisogno di lavorare fuori casa. Alle donne non
era chiesto se volessero farlo: era semplicemente il loro dovere, e si riteneva che lo
svolgessero per scelta, per amore, anche se di solito avevano poche possibilità di decisione
in merito”.
Questa lunga citazione da Martha Nussbaum[4] contiene tutti gli elementi
utili a una discussione approfondita sulla nozione di Cura. Ci dice la Nussbaum che la cura
non solo è una attività non retribuita ma che essa viene assegnata a persone che non
godono pienamente dei diritti dei cittadini oppure viene assegnata alle donne, dunque, in
qualche modo assimilate a una categoria di persone con diritti più limitati rispetto agli
“altri” cittadini (gli uomini).
Ancora, ci dice la Nussbaum che la pratica della cura non viene scelta dalle donne ma è ritenuta doverosa (in quanto “naturale”) e infatti è compiuta “per amore”, dunque per naturale istinto (materno) verso chi di cura e accudimento ha bisogno.
Infine, essendo la cura una pratica che scaturisce dall’amore, essa è, per sua natura, un
fatto privato e intimo. La Nussbaum riesce a cogliere tutte le distorsioni che, a
tutt’oggi, caratterizzano la retorica della Cura.
In contrasto con tale retorica dobbiamo affermare che la cura non deve essere
considerata come valore esclusivo del mondo vitale delle donne ma “occorre
piuttosto rivendicarlo come centrale nella vita umana” (cit. in Battaglia). Inoltre, la
Cura non è una dimensione esclusivamente emozionale e privata ma appartiene anche alla
dimensione sociale e pubblica. Tale dimensione pubblica pone quindi la Cura al di fuori della
esclusiva sfera del privato, regolato da contratti individuali e affettivi ma la pone anche
dentro una dimensione pubblica e istituzionale, in quanto Diritto.
Infatti, chi ha bisogno di accudimento, di cura e assistenza continua non è soltanto un essere umano che merita pietà ma un cittadino che esige un diritto: la cura è un diritto.
Troppo spesso invece, la cura, malgrado sia un diritto, per chi ne ha bisogno resta una oblazione da parte di chi la presta.
È questo il caso della assistenza e accudimento ai disabili e agli anziani non
autosufficienti. Al diritto di queste persone viene offerta esclusivamente la oblatività/dovere
dei famigliari senza che tale “servizio” venga riconosciuto, sostenuto, finanziato.
La cura si occupa di bisogni corporei, di bisogni psicologici ma anche di bisogni organizzativi
e amministrativi. La cura cioè si occupa anche di quello che l’antropologo americano
Arthur Kleinman ha definito “social suffering”. Nella cura si coniugano atti intimi e
privati e atti sociali: la cura è anche una pratica sociale che richiede “politiche”,
finanziamenti e sostegni. Come scrive Kleinman, la Cura è in cerca di una propria
collocazione a pieno diritto nella agenda della salute[5] e, dunque, essa ha bisogno di
entrare a fare parte della formazione degli operatori della sanità, della cultura degli
amministratori e dei pianificatori e deve essere riconosciuta come una componente centrale
della salute umana e della sanità.
Non vi è dubbio che la cura sia al tempo stesso un’azione gratuita e una pratica
professionale. L’esistenza di un legame personale fra curato e curante può essere benefica
ma anche divenire un fattore di rischio per l’eccessivo coinvolgimento e il rischio di burn-
out. D’altra parte, se l’assenza di legame può rappresentare una garanzia di maggiore
competenza e professionalità, al tempo spesso può determinare una assenza di empatia.
Dunque, si tratta di equilibri delicati che richiedono maturità emotiva, responsabilità,
competenze e sinergie fra dimensione privata e istituzioni pubbliche. Inoltre, la Cura è un
processo continuativo e non può essere occasionale in quanto si protrae nel tempo e
all’interno di una o più relazioni. Ecco perché la Cura necessita sia continuità sia del
coinvolgimento di un numero ragionevolmente limitato di persone per evitare che si
trasformi in occasionale accudimento materiale, senza empatia.
I soggetti che hanno bisogno di assistenza e accudimento hanno infatti bisogno di affidarsi a pochissime persone e non possono adattarsi a un turn over casuale e burocratico di troppi
operatori. Allora, diciamo che la cura è un insieme di azioni tangibili, concrete e misurabili
ma essa si invera soltanto se prestata insieme ad attitudini intangibili quali gentilezza,
delicatezza, discrezione, rispetto. Dunque, la cura è azione pratica e affettiva al tempo
stesso. Questa doppia natura richiede competenze pratiche e competenze affettive.
Spesso i famigliari mancano delle prime e gli operatori sanitari delle seconde.
Questa doppia natura della Cura costituisce in sostanza la sua complessità e la sua
trasversalità nella vita di ognuno: una attività alta e profondamente umana poiché coniuga
l’intimità segreta e privata dei corpi, la gentilezza e il rispetto per i viventi, le pratiche umili
e quotidiane dell’accudimento ma anche la consapevolezza di non essere solamente solitari
produttori di oblatività ma parti di una comunità umana e sociale fatta di solidarietà e di
concreti sostegni istituzionali. La Cura è dunque un complesso atto bio-psico-sociopolitico.
In conclusione, diciamo che ben venga un decennio di celebrazione della Cura da
parte delle Nazioni Unite che possa costituire l’occasione per aprire un cantiere di
riflessione, studio e dibattito filosofico, giuridico e politico sul significato delle
pratiche della Cura rivolta ai soggetti non autosufficienti. Tuttavia, dobbiamo fare sì
che questa sia anche una opportunità storica per interrompere l’implacabile destino delle
donne, costrette al ruolo di vestali della Cura come se fossero designate dalla Natura,
riconoscendone piuttosto il ruolo di soggetti con diritti indeboliti. Una opportunità storica
per abbandonare la insopportabile retorica della Cura e formulare invece una sua nuova
etica e una nuova politica.
Benedetto Saraceno
Segretario Generale, Lisbon Institute of Global Mental Health
Bibliografia
- Marcia della Pace Perugia Assisi: la cura è il nuovo nome della pace. Sempionenews.it,
21.09.2021 - Fischer B and Tronto JC. Towards a Feminist Theory of Caring. Circles of Care Abel
E.K and Nelson M (edts). Suny Press. Albany, 1990, p.30. In: Battaglia L. Etica e
politica della cura. 2021. Notizie dall’Istituto Italiano di Bioetica. - Battaglia L. Etica e politica della cura. 2021. Notizie dall’Istituto Italiano di Bioetica.
- Nussbaum MC. Le nuove frontiere della giustizia. Bologna: Il Mulino, 2007. p.120.
- Kleinman A. Care: in search of a health agenda. Lancet 2015; 386: 240-241.