Nel 2021 non siamo ancora davvero «libere di abortire».
Ma le ragazze non ci stanno: «Conoscono i loro diritti e sono disposte a battersi per difenderli»
Corriere della sera. La 27 ora – 2 settembre 2021 Chiara Servegnini
Nel 2021, in Italia, c’è ancora bisogno di chiedere allo Stato di «garantire concretamente il libero accesso all’aborto»? La risposta si può trovare nelle frasi che ricorrono nei manifesti della campagna «Libera di abortire», promossa da Radicali Italiani insieme a IVG ho abortito e sto benissimo, Non è un veleno, UAAR, Giovani Democratici Abruzzo, Giovani Democratici Milano, Si può fare e Take… Action!.
«Il 70% dei ginecologi è obiettore di coscienza», si legge su uno. «Mi hanno respinta in tre ospedali», recita un altro. «Per il 16% delle donne straniere l’aborto è ancora clandestino», riporta un terzo. Un mix di dati e testimonianze che sui manifesti sono associati ai volti di chi ha deciso di metterci la faccia. Lo scopo: pretendere un cambio di passo. Prima di tutto rendendo (di nuovo) visibile una lotta, quella per il diritto all’aborto, che ciclicamente sembra passare di moda, ma di cui il Paese ha ancora bisogno.
Basti pensare a cosa è successo alle donne che desideravano interrompere la gravidanza durante i lockdown, oppure al caso del Piemonte, dove le autorità regionali hanno deciso di permettere ai soli ospedali (e non più anche ai consultori) di somministrare la RU486.
L’elenco dei motivi per cui è necessario riportare l’attenzione sulla legge 194 lo continua l’attivista e podcaster Vittoria Loffi, 23 anni, che oltre a far parte del Comitato nazionale dei Radicali italiani è tra i promotori di «Libera di abortire»: «Consultori smantellati, tassi di obiezione altissimi in diverse regioni, educazione sessuale assente nelle scuole… E poi ci sono le testimonianze delle donne: da quando abbiamo avviato la campagna ne riceviamo moltissime. E mostrano chiaramente che per abortire in Italia occorre superare molti ostacoli». Il primo è la scarsità di informazioni. Basta una rapida incursione sui siti istituzionali per rendersi conto di quanto sia difficile, per una donna, capire a chi rivolgersi per accedere a una IVG.
Proprio per questo i promotori e le promotrici di «Libera di abortire» hanno dato vita a un vademecum con le risposte a tutte le domande più comuni, da «Entro quando posso abortire?» a «Cosa devo fare se il mio medico è obiettore di coscienza?». Si intitola «Libera di sapere» e, spiega l’avvocata Giulia Crivellini, tesoriera di Radicali Italiani, «offre un servizio ma è anche una chiara provocazione politica». Perché? «Per l’ennesima volta, tocca alle associazioni fare ciò che Stato e regioni non fanno, ovvero spiegare in modo chiaro come accedere a un servizio garantito per legge, almeno sulla carta». «Non toccherebbe a noi farlo, ma siamo costretti, per colmare un vuoto», rimarca Loffi. Che poi chiosa: «Anche questo dimostra che, a oltre 40 anni dalla sua approvazione, la legge 194 non viene rispettata appieno».
Appunto: il diritto all’aborto, nel nostro Paese, non è garantito a tutte allo stesso modo. Per rimediare, il comitato dietro a «Libera di abortire» propone una serie di correttivi e li indirizza, sotto forma di appello, al ministro Roberto Speranza. Tra i punti proposti c’è, ad esempio, l’introduzione di «un indicatore specifico che valuti la presenza/assenza, tempi e modalità di erogazione dei servizi per l’Ivg».
Il motivo lo spiega Crivellini: «Crediamo sia necessario integrare i report già esistenti sull’attuazione della 194 con un parametro che sappia evidenziare la cosiddetta obiezione di struttura». »La legge», precisa, »garantisce l’obiezione di coscienza a livello individuale, ma impone alle regioni di vigilare affinché il servizio sia garantito in tutti gli ospedali». Eppure, così non avviene. Soprattutto laddove la percentuale di obiettori è più alta. Risultato: alcune donne sono costrette a lunghe trasferte per interrompere una gravidanza. Una circostanza che, ricorda Crivellini, ha fatto sì che l’Italia venisse condannata dal Comitato europeo per i diritti sociali del Consiglio d’Europa. Ma le disparità territoriali non finiscono qui. «Ci sono intere regioni che hanno deciso di non attuare le linee guida ministeriali sull’aborto farmacologico», prosegue l’avvocata, «e così ci sono donne che non hanno accesso a un certo metodo abortivo solo perché risiedono in una città e non un’altra: un fatto gravissimo».
Le proposte dell’appello indirizzato al ministro della Salute, però, riguardano anche la formazione di ginecologi e ostetrici (si chiede che venga garantita loro la possibilità di apprendere sin dalla specializzazione come operare le IVG con le tecniche più recenti) e l’educazione all’affettività per i giovani (oggi negletta). A questo proposito, Crivellini chiarisce: «L’aborto si porta ancora con sè tanti tabù. E lo stesso vale per il sesso. Ma è dovere dello Stato mettere i cittadini in condizione di esercitare la loro sessualità in modo responsabile, sin da giovani». «La libertà è sempre anche responsabilità», aggiunge l’avvocata, «e non si deve aver paura di dire che è dalle scuole che si deve partire. Vogliamo squarciare il velo di silenzio sul tema».
Al «silenzio» è dedicato anche l’ultimo tassello della vasta campagna social che ruota attorno a «Libera di abortire»: una challenge su Instagram. Gli utenti sono invitati a riprendersi mentre parlano del diritto all’aborto e poi a pubblicare il video – nelle Storie o sul feed – senza l’audio, rappresentando così il silenzio che ancora circonda la legge 194. «Puntiamo a mobilitare, anche grazie ai social, i più giovani», spiega Loffi. Il terreno, chiarisce, è già fertile: «Le ragazze di oggi sono informate e arrabbiate: hanno capito prima di tanti adulti che non si possono dare per scontati i diritti, hanno sete di femminismo intersezionale e vogliono capire come attivarsi». Merito dei tanto bistrattati social? «Anche», risponde l’attivista e podcaster, che poi precisa: «Certo, possono essere armi a doppio taglio. Ma sono uno strumento che i giovani usano per informarsi sui temi che gli stanno a cuore, dall’ambiente ai diritti. Sono un punto di partenza che talvolta genera un effetto a catena. Lo vediamo anche ai banchetti per la raccolta firme per l’eutanasia legale: i giovanissimi ai tavoli sono tanti. Evidentemente molti non si accontentano dei social, ma vogliono attivarsi in prima persona».
Anche Crivellini concorda: «Ho passato due settimane in Puglia e Sicilia a presidiare i tavoli per la raccolta firme sul referendum e sono tornata piena di speranza: con me c’erano decine di ventenni entusiasti e informati sui loro diritti». Anche quelli riproduttivi? «Ho incontrato ragazze molto attente al tema, spesso perché hanno vissuto, in prima persona o attraverso l’esperienza di amiche e conoscenti, gli ostacoli che incontra chi ha bisogno di abortire o di procurarsi la pillola del giorno dopo. Hanno voglia di impegnarsi perché si sentono chiamate in causa». E dire che c’è chi pensa che la Generazione Z sia apatica… «Non nego che esista anche un altro volto della mia generazione», ammette Loffi, classe 1998, «ma credo che nel complesso siamo sempre più libere e liberi di trovare una identità che ci rispecchi appieno. Di conseguenza, capiamo bene il valore dei diritti».
La raccolta firme a sostegno delle proposte del comitato «Libera di abortire» procede già da mesi e ha un orizzonte preciso: raggiungere 50 mila firme entro il 28 settembre, giornata internazionale dell’aborto sicuro. Per arrivarci, non c’è solo la campagna social: accanto ai muri virtuali ci sono anche quelli reali. I manifesti citati in apertura hanno già fatto la loro comparsa in alcune città come Milano o Perugia, ma il comitato promotore della campagna intende affiggerne altri nelle prossime settimane, e non in città qualunque, bensì in quelle dove l’accesso all’IVG è più problematico. Nelle parole di Crivellini, lo scopo è «andare lì dove la situazione è più urgente, dove c’è maggior bisogno di rompere il tabù sull’aborto». Perché quando c’è silenzio, a volte, bisogna far gridare anche i muri.