Parità salariale, la legge da sola non basta

La Repubblica 27 ottobre 2021 – Chiara Saraceno

La legge sulla parità salariale approvata in via definitiva è un passo importante. Preso atto che, nonostante esistano da tempo norme anti-discriminatorie, le differenze salariali tra uomini e donne persistono a causa di forme di discriminazione nell’attribuzione di mansioni, nei passaggi di carriera, oltre che in modelli organizzativi che rendono difficile a molte donne partecipare alla vita dell’azienda, la legge allarga la nozione di discriminazione diretta e indiretta già contenuta nell’articolo 25 del decreto legislativo n. 198/2006 per includere, appunto, anche atti di natura organizzativa, o che incidono sull’orario di lavoro, che possono mettere in una posizione di svantaggio e impedire di partecipare pienamente alla vita aziendale e di essere considerate per una promozione.


Occorre quindi evitare, per non essere sanzionati, di mettere in atto quei trattamenti – orari di lavoro impossibili, riunioni fuori orario di lavoro, in generale condizioni lavorative che, “in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive”, pongono o possono porre la lavoratrice in “posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri” addetti, che generano “limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali” e creano ostacoli riguardo ad avanzamento e progressione nella carriera.


Un’organizzazione oraria del lavoro che, ad esempio, chieda di essere inderogabilmente sul posto di lavoro prima dell’orario di apertura del nido o della scuola può sembrare neutrale ma non lo è per chi ha figli piccoli, così come lo spostamento in sedi lontane. Anzi, questi requisiti “neutri” possono essere utilizzati proprio al fine di discriminare.


E non basterà, come mi è capitato di sentire, dichiarare di essere un’azienda paritaria solo perché ci sono molte donne, o perfino la maggioranza, ma sono per lo più collocate nei gradini più bassi della scala occupazionale, mentre i gradini più alti sono tutti, o quasi, occupati da uomini. Viene inoltre finalmente estesa alle aziende pubbliche la normativa delle legge Golfo-Mosca che impone alle società quotate in Borsa di non avere più del 70% di persone dello stesso sesso (per lo più maschile) nei consigli di amministrazione. E viene abbassato da 100 a 50 dipendenti il tetto al di sopra del quale le imprese hanno l’obbligo di presentare una relazione biennale sulla situazione salariale e per mansioni dei dipendenti uomini e donne.


Stante la diffusione di piccole imprese in Italia, e la forte concentrazione di donne in esse, questa norma lascia ancora fuori una bella fetta di imprese e di lavoratrici. Ma è già un miglioramento, come lo è l’introduzione non solo di incentivi alle aziende più “virtuose”, che potranno fregiarsi della certificazione di pari opportunità, ma di sanzioni per le aziende che non consegnano per tempo il rapporto biennale o che ne consegnano uno che non rispecchia la realtà effettiva. Anche se non è chiaro, in quest’ultimo caso, a chi spettano i controlli e come verranno fatti.


Il tragico stillicidio quotidiano di morti sul lavoro indica come la questione dei controlli, prima che delle sanzioni, sia il punto dolente delle condizioni di lavoro. Anche se non riguarda l’integrità fisica, quando non la sopravvivenza, controllare l’effettivo perseguimento della parità non è una operazione banale, visto che gran parte delle discriminazioni avviene per via indiretta. Non a caso una proposta di Direttiva dell’Unione Europea intesa a rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore attraverso la trasparenza delle retribuzioni e meccanismi esecutivi si sofferma molto sulla questione degli indicatori e di come e quali dati vadano raccolti.


Perché la legge venga applicata davvero occorrerà lavorare in questa direzione. Averla approvata è un buon inizio. Ma perché non rimanga puramente simbolica c’è ancora molto da fare.