Schwa, la polemica: com’è nata e come potremmo uscirne

Corriere della sera – La 27 ora – 15 febbraio 2022 Elisa Messina

Sembra incredibile eppure è successo.
Il dibattito sullo schwa è uscito dalle discussioni tra linguisti e socio-linguisti diventando un tema divisivo come la legge Zan, scatena polemiche, provoca scambi di insulti sui social e persino sulle colonne dei quotidiani come il nostro.


La situazione è precipitata nei giorni scorsi quando una squadra di intellettuali di prestigio. dopo aver trovato il famigerato schwa in un verbale universitario, si è sentita in dovere di lanciare una petizione su change.org contro il suo utilizzo e in nome della sacralità della lingua italiana. Petizione che non ha fatto altro che rinfolocare la bagarre tra sostenitori e detrattori della piccola e rovesciata. Uno dei docenti autori del documento ha risposto con una lettera al Corriere spiegando le ragioni di questo uso e dicendosi piuttosto stupito di tutto questo “accanimento”. Subito dopo è arrivata, sempre al Corriere, una replica alla risposta.
Insomma, è diventato un caso socio-politico. O psico-politico.
A seconda di come la si voglia vedere.

Suono intervocalico

Andiamo con ordine: intanto spieghiamo di cosa stiamo parlando. Ecco lo schwa, si scrive Ə, non è un’invenzione recente ma uno dei simboli dell’alfabeto fonetico (quelli che si usano per sapere come pronunciare le parole nelle altre lingue per dirla in soldoni) non corrisponde a nessuna delle 5 vocali, ma è un suono intervocalico, una vocale mediana che si pronuncia con la bocca a riposo. Un po’ alla napoletana, come osserva la scrittrice Michela Murgia, che, per la prima volta, l’ha usato in un libro di narrativa fuori dal circuito della comunità Lgbtq+ che in genere lo adotta.

Lo schwa è un «esperimento linguistico», proposto negli ultimi anni per ovviare a una questione strutturale dell’italiano: come rivolgersi a una moltitudine mista senza usare il maschile sovraesteso? Perché lo sappiamo, fino ad oggi se io dico “ i giornalisti italiani” comprendo in questo plurale maschile (il maschile sovraesteso) tutti gli appartamenti alla categoria, che siano maschi, femmine e anche quell’1% di persone che non si riconoscono nei due generi, ovvero, non binarie.

Asterischi, fonemi e altri esperimenti

Esistono anche altri esperimenti, per esempio l’uso dell’asterisco (ciao a tutt*) o della u finale (ciao a tuttu). Lo schwa è stato definito anche uno «strategemma inclusivo» usato da sottoculture Queer e attivisti e attiviste di sinistra. Vera Gheno, socio-linguista autrice di molti volumi sul valore inclusivo della lingua (suo il saggio «Femminili singolari» sull’uso del femminile nella nostra lingua) ha più volte sottolineato che l’uso dello schwa da parte di una minoranza che non si trova a proprio agio con il maschile e il femminile, le persone non binarie, va preso per quello che è, una sperimentazione, non un’imposizione. Che in questo senso, e all’interno di una comunità, è usato da una decina di anni. Che quando si ragiona in modo inclusivo, anche le minoranze con l’1% hanno valore, soprattutto se parla di una minoranza di persone che subiscono vessazioni da secoli.

Lo schwa entra nei libri pop

Ma fin qui il dibattito, a parte i battibecchi social, è rimasto un confronto tra linguisti e intellettuali in genere: quelli a favore, come Vera Gheno, Manuela Manera o Michela Murgia e quelli contrari come Cristiana de Santis. Vero è che l’uso dello Ə è uscito dalla cerchia di attivisti per entrare anche nella comunicazione più mainstream. La casa editrice Effequ lo usa regolarmente nella sua saggistica. Il noto divulgatore scientifico Massimo Polidoro lo ha voluto nel titolo del suo nuovo libro «Pensa come uno scienziatƏ» edito da Piemme. Al netto di qualche strategia di marketing che approfitta dello schwa per fare autopromozione di brand o prodotti (il gender washing è diffuso tanto quando il pink washing), la sperimentazione ha trovato, insomma, un certo interesse. Segno dei tempi, di una società più fluida dove le nuove sensibilità sono portate avanti soprattutto dalle nuove generazioni.

Il casus belli: un documento con lo schwa

Poi c’è stato il casus belli del documento universitario, ovvero, il verbale di una commissione per l’abilitazione a professore di prima e seconda fascia, in cui lo schwa ha fatto la sua comparsa in un documento della pubblica amministrazione. C’è da dire che, in ambito universitario, vi sono già atenei che lo utilizzano per comunicazioni interne, ma il suo utilizzo (non del tutto corretto, per altro, a detta degli esperti) su un verbale un po’ più importante ha fatto indignare un certo numero di accademici capitanati dal linguista Massimo Arcangeli (Massimo Cacciari, Alessandro Barbero, Paolo Flores D’Arcais, Cristina Comencini tanto per citare i nomi più noti) che hanno lanciato la petizione su change.org per fermare questo utilizzo definendolo «una pericolosa deriva, spacciata per anelito d’inclusività da incompetenti in materia linguistica, che vorrebbe riformare l’italiano a suon di schwa» e anche «l’ennesima follia, bandita sotto le insegne del politicamente corretto». Dopo qualche giorno le firme erano già circa 20mila.

Lo strano caso della petizione

Premesso che, qualunque opinione si abbia sullo schwa, ricorrere a una petizione online per fermare un fenomeno linguistico è davvero singolare e forse contrario a quello che da sempre si studia a proposito della lingua, ovvero che è viva e impermeabile alle imposizioni esterne. Nessuno vuole imporre lo schwa e nessuno può pensare di imporre la sua abolizione. L’esito, però, è stato di polarizzare un dibattito, aumentare la partigianeria di favorevoli e contrari spostando l’attenzione dal vero tema, ovvero capire come, nella nostra comunicazione, possiamo fare un uso più inclusivo della lingua e puntare il dito contro quel plurale maschile universale che, ammettiamolo, va stretto in primis al 50% della popolazione globale: le donne. Perché le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti, perché «il nome della rosa» è ciò che resta della rosa anche quando questa è appassita. E chissà cosa avrebbe detto quel gigante di Umberto Eco di tutta questa polemica.

La “guerra” tra professori

Il professor Decastri, che del famigerato verbale è uno degli autori ha scritto al Corriere per difendere non tanto lo schwa in sé, ma la possibilità di rispondere a nuove istanze, sopratutto in un ambiente, quello universitario, frequentato dai giovani: «La lingua evolve secondo processi storici: se nel tempo lo schwa diventerà o meno di uso comune – “a dispetto dì tutti i linguai, cominciando da me… che accetto ogni nuova parola che la mia lingua non mi può dare, per significare qualcosa di nuovo”, citando il filologo Rigutini che lo scrisse nel 1886 – lo decideranno non un gruppo di intellettuali con le petizioni, ma la società che avanza, che sceglie a chi e cosa dare spazio e rappresentazione e, soprattutto, le giovani generazioni che leggeranno in quella un “disturbo molesto” o un’iniziativa di accoglienza e cambiamento». Il professor Arcangeli ha replicato alla risposta prima analizzando tutti passaggi del verbale in cui si usa lo schwa (con qualche scivolata ammessa dagli stessi relatori del documento, per esempio applicandolo a parole ambigenere) – e poi ribadendo che tale uso è fuori dalla lingua e dalla grammatica italiana: «Stiamo parlando di usi linguistici scellerati, che violano le regole ortografiche e fono-morfologiche dell’italiano. Usi da censurare senza pietà, e bisognava farlo ora». Cosa si aspettano i sottoscrittori della petizione? Un’ordinanza del ministero che vieta l’uso dello schwa in qualsiasi testo o documento? Una china così proibizionistica, forse, sarebbe esagerata.

I “dsa” alle prese con lo schwa

Uno degli argomenti utilizzati dagli oppositori della schwa è che questo simbolo, inclusivo nelle intenzioni, finirebbe per danneggiare e quindi escludere chi soffre di dislessia e di altre patologie neuroatipiche per i quali i discorsi con lo schwa diventerebbero incomprensibili. Come scrive Cristiana De Santis: «Se non vogliamo che la nostra lotta contro la xenofobia e l’abilismo, oltre che contro il sessismo, appaia come un pretesto utile per alzare la voce, non possiamo ignorare queste istanze». Un’osservazione legittima. Anche se poi la stessa comunità di persone neurodivergenti si è ribellata a questa “difesa non richiesta” con una lettera aperta in cui si precisa che gli accademici puntano il dito su «una difficoltà di lettura che per un Dsa è facilmente risolvibile con l’adeguamento dei mezzi tecnici di didattica e di lettura». E il tono della lettera è, grosso modo, il seguente: cari professori, ci tirate in ballo, senza consultarci su questa cosa, ma poi dove siete quando chiediamo più insegnanti di sostegno per aiutarci nel nostro apprendimento?

Il sessismo (di ritorno) della lingua

La polemica andrà avanti, è sicuro. Perché è entrata nel filone di altre polemiche: ideologia gender, ddl zan, dittatura del politicamente corretto eccetera eccetera. Ma la guerra ideologica tra chi è pro o contro il piccolo fonema non aiuta la riflessione, quella sì concreta, sul tema dell’inclusività. Provando a vedere le cose in modo più oggettivo l’esperimento schwa pone una classica questione di genere, e, che piaccia o meno ai linguisti, forse rappresenta un modo per disinnescare la regola dell’universale maschileUna piccola pietra d’inciampo contro il sessismo, direbbe Michela Murgia, per riflettere su un tema che non riguarda solo la lingua e non riguarda solo le persone non binarie.«Introdurre qualcosa di ignoto per riflettere sua valenza» osserva la linguista Manuela Manera. Ragionare sulla lingua per ragionare sulla società, insomma, questa sarebbe la sfida.

Quando, sul finire degli anni 80 si iniziava a discutere sull’uso di parole come “avvocata” o “ministra” e in generale su desinenze al femminile che prima non esistevano, ci furono altrettante levate di scudi: era difesa del valore culturale della lingua o arroccamento in difesa da parte della soggettività maschile? Ci sono voluti anni e fiumi d’inchiostro per far digerire parole come “rettora” o “magistrata”.

Probabilmente, lo schwa, come dichiara la stessa Vera Gheno, non arriverà mai a sistema, non entrerà nei libri di grammatica, ma almeno, parlarne, ci invita a passare dal pensiero sulle parole a quello sulle persone.