Blog Il Fatto Quotidiano 12 dicembre – Laura Onofri
La nomina di Giorgia Meloni a Presidente del Consiglio ha acceso un dibattito su quanto i partiti, tutti, anche l’unico guidato da una donna, siano ancora profondamente maschilisti e quanto le leadership femminili facciano ancora fatica ad emergere.
In questi giorni ne abbiamo una riprova se osserviamo quello che sta succedendo all’interno del Partito Democratico rispetto alle candidature al prossimo congresso che ne decreterà la nuova segreteria.
Finalmente, dopo i tentativi falliti di Rosy Bindi nel 2007 e di Laura Puppato nel 2012 di guidare il Pd, due donne ci riprovano e si mettono in gioco con coraggio e determinazione, quel coraggio e quella determinazione che spesso manca alle donne del partito e che sono accusate da commentatori, giornalisti ed anche dai militanti di essere cooptate dai capi corrente, tutti rigorosamente maschi, senza mai misurarsi e di non agire quei conflitti, necessari per sradicare quel maschilismo presente all’interno del partito.
E’ chiaro che dentro una comunità che si dichiara “femminista” ma che del femminismo ha dimostrato di avere ben poche caratteristiche, è difficile per qualsiasi donna prevalere; non bastano, tenacia e capacità, per affermarsi. Ci vogliono sicuramente congiunzioni astrali favorevoli per abbattere il potere che un manipolo di uomini detiene saldamente in mano e che non ha nessuna voglia di abbandonare, ci vuole la consapevolezza di affrontare un percorso con ostacoli ben maggiori di quelli che deve affrontare un uomo.
Non appena Paola De Micheli e Elly Schlein hanno deciso di candidarsi sono iniziate, con modalità diverse, sia da parte dei media, ma in modo più preoccupante, all’interno del partito, analisi, valutazioni, giudizi, censure che, guarda caso, non sono mai riservate ai candidati uomini.
Paola De Micheli è stata sin dall’inizio quasi “oscurata” come spesso succede anche a livello locale quando c’è una candidatura femminile. Supportare le leadership femminili significa anche dare spazio, attenzione, visibilità alle candidature. Non basta ribadire negli statuti, negli ordini del giorno, che il tema dell’uguaglianza è ben presente all’interno del Pd, quando poi queste parole non sono accompagnate da alcun gesto concreto che segnali un’inversione di rotta. Perché, se per la democrazia paritaria ci si appella spesso agli articoli 3 e 51 della Costituzione che prevedono di “rimuovere gli ostacoli” che di fatto impediscono una piena partecipazione all’organizzazione politica, questo principio non deve ancor più valere all’interno di un partito politico, che oltretutto si dichiara femminista?