Tokyo 2020, il sessismo nello sport spiegato (anche) grazie a un paio di slip

Corriere della sera La 27 ora – 4 agosto 2021 – Elisa Messina

«Perché solo trafiletti sui nostri giornali dedicati alla tuta delle ginnaste tedesche? Quella scelta è una piccola rivoluzione». Osservava qualche giorno fa Alessandra De Stefano conduttrice del «Il circolo degli anelli», talk televisivo serale di Rai2 dedicato alle Olimpiadi di Tokyo 2020. Già, perché? Nel rullo veloce della cronaca finiscono solo le notizie, più raramente la riflessione sui fatti e in questo caso la notizia era che le ginnaste tedesche avrebbero gareggiato a Tokyo 2020 con una tuta aderente fino alle caviglie anziché con il solito body. Le atlete hanno spiegato che la scelta è stata fatta «per mettere fine alla sessualizzazione della ginnastica».

Pochi giorni prima che si accendessero i riflettori sulle Olimpiadi di Tokyo si era parlato anche del caso della nazionale norvegese di Beach Handball (Beach Pallamano): durante i campionati europei le atlete si sono rifiutate di giocare con gli slip previsti dal regolamento (del quale da tempo si chiede la modifica), scegliendo di indossare un paio di calzoncini aderenti molto simili a quelli usati dai colleghi maschi. Sono state multate per la violazione ma il gesto di disobbedienza e lo scandalo della multa ha avuto risonanza mondiale. Era quello che volevano.

Le atlete della pallamano come le ginnaste tedesche hanno chiesto la libertà di usare un abbigliamento di gara nel quale sentirsi più a proprio agio. Una richiesta ragionevole, anzi, ovvia, da parte di un atleta chiamato a una performance di quel tipo. E invece…
Ma qualcosa sta davvero cambiando.

Pauline Schaefer-Beatz, ginnasta tedesca

In bikini per «un’immagine sana»

Queste Olimpiadi resteranno diverse da tutte le altre non solo per le mascherine e gli stadi vuoti, ma anche perché, forse per la prima volta e con forza, le atlete hanno rivendicato il diritto di riprendersi il controllo sulle loro uniformi da gara contro gli standard disuguali imposti fino ad oggi nel mondo dello sport. Che tradotto vuol dire chiedere di riprendersi il controllo sul proprio corpo. Perché «il padrone» del corpo delle atlete, fino ad oggi, è sempre stato qualcun altro. La federazione internazionale di beach volley (che quest’anno, per la prima volta, ha consentito alle atlete tre opzioni diverse tra slip e shorts di varia lunghezza) giustifica le regole della tenuta bikini affermando che «Gli atleti di beach volley gareggiano in spiaggia e in un ambiente all’aria aperta e sono tenuti a proiettare un’immagine sana per pubblico, media, partner». Insomma, oltre a gareggiare e cercare di vincere le atlete devono anche preoccuparsi della salubrità che la loro immagine trasmette a spettatori e sponsor. E cosa c’è di più «sano» di un bikini?

Olivia Breen e gli slip «inappropriati»

Pretendere di sentirsi maggiormente a proprio agio con ciò che si indossa non deve essere inteso banalmente come la richiesta di «coprirsi» di più. L’inglese Olivia Breen, campionessa paralimpica nei 100 metri e nel salto in lungo che vedremo presto alle Paralimpiadi di Tokyo, ha raccontato di essere rimasta senza parole quando una funzionaria di gara dopo la sua perfomance di salto ai campionati britannici, le ha detto di ritenere «troppo corti e inappropriati» i suoi slip da gara. «Indosso lo stesso stile di slip primaverili da molti anni e sono progettati specificamente per gareggiare» ha replicato lei sui social. «Spero di indossarli a Tokyo. Mi chiedo se a un concorrente maschio sarebbe stato criticato allo stesso modo. E mi auguro che non capiti a nessun atleta ai Giochi Olimpici di sentirsi a disagio».

La preoccupazione estetica sul corpo distrae dalla perfomance

Insomma, neppure quando sono in gioco i più grandi atleti del mondo si riesce a concentrarsi solo sulla funzionalità del body di una ginnasta o degli short di una pallavolista anziché sull’immagine che questi rimandano. Con disagio delle dirette interessate.
Lo spiega bene Caterina Suitner, docente di psicologia sociale all’università di Padova: «Un corpo esposto allo sguardo di un pubblico, un corpo dedicato a compiacere le aspettative di canoni di bellezza è un corpo che attira l’attenzione anche della proprietaria del corpo, costretta ad un costante auto-monitoraggio. Questo automonitoraggio del corpo fa certamente parte delle capacità richieste a chi è un professionista sportivo addirittura a livello olimpionico, in cui il controllo dei propri movimenti raggiunge livelli estremi. Quindi qualsiasi distrazione è costosa. Monitorare l’aspetto estetico del corpo è un costo aggiuntivo, e il conto non lo si paga solo a livello psicologico (per esempio con stress e malessere) ma anche cognitivo. La mente è sovraccaricata da un compito in più, e quindi la performance cognitiva è penalizzata».
Sei anni fa, un celebre esperimento condotto dal team di ricercatori della Rice University di Houston, Michelle R. Hebl, Eden B. King and Jean Lin, dimostrò come le prestazioni in un compito di matematica cambiavano a seconda dell’abito che lo sperimentatore chiedeva di indossare alle persone che partecipavano al test: «Il gruppo che indossava un maglione è riuscito a risolvere meglio il test di matematica rispetto al gruppo al quale è stato chiesto, in modo assolutamente causale, di indossare il costume da bagno» racconta Suitner. E la condizione dei soggetti in costume da bagno è quella in cui abitualmente si trovano le donne: «Questa attenzione al corpo non è simmetrica: è molto maggiore verso le donne che più frequentemente degli uomini sono il soggetto di un’attenzione che vede i loro corpi come pezzi sessuali».

Se il dress code non ci descrive

«La sessualizzazione delle atlete è un fenomeno che rispecchia la sessualizzazione dei corpi delle donne in generale» spiega Suitner. « Mettendo in Google la chiave di ricerca atlete olimpiadi, i primi risultati che emergono hanno titoli del tipo “le 10 atlete più sexy delle olimpiadi”, mentre cercando informazioni su atleti olimpiadi emergono informazioni sulle performance sportive». Battaglie vinte come quelle delle ginnaste tedesche sono importanti per la risonanza che hanno. Spega Suitner: «Sono rivendicazioni che le donne stanno esercitando, non solo per se stesse, ma per tutte le donne e per tutti gli uomini, che in altro modo subiscono questi stereotipi di genere. Perché gli stereotipi confinano tutti noi in un dress-code che non necessariamente ci appartiene o ci descrive».

Con la gonna sul ring?

Stiamo celebrando le Olimpiadi di Tokyo come i Giochi più gender equal di sempre: le gare miste (in una di queste, nella Vela, abbiamo vinto la medaglia d’oro) sono diventate sempre più importanti e aumenteranno, la delegazione italiana è composta al 48% da donne, mai così numerosa. «Ma le rivendicazioni portate avanti dalle atlete sulle uniformi ci stanno dimostrando che ci sono ancora problemi significativi che non si risolvono semplicemente aumentando i numeri» ha dichiarato alla Nbc Kendra Gage, docente di studi etnici e di genere presso l’Università di Nevada. Perché i pregiudizi sono radicati nel profondo.
Solo nove anni, fa nel 2012, alle Olimpiadi di Londra, la Federazione mondiale di badminton cercò di costringere le atlete delle squadre femminili a indossare gonne per «sembrare femminili e avere un bell’aspetto». Nello stesso periodo la International Boxing association insisteva per imporre le gonne alle pugili al posto dei calzoncini. Il Comitato olimpico non può decidere regolamenti sulle uniformi, queste dipendono dalle federazioni internazionali dei singoli sport che sono ancora guidate e gestite da uomini. E gli standard assegnati sono diseguali e riflettono stereotipi: «Per tornare ai bikini del beach volley è evidente che il dress code si basa sul sex appeal eterosessuale» ha osservato alla Nbc Helen Jefferson Lenskyj docente di storia all’università di Toronto ed esperta di Olimpiadi.

L’esempio Simone Biles

Le ginnaste tedesche non sono arrivate in finale, ma il loro gesto di buon senso è stato apprezzato dalle colleghe di tutto il mondo: in un’intervista alla Bbc (che a differenza dei media italiani ha dato spazio alla questione) la ginnasta tedesca Sara Voss ha motivato la scelta parlando di inclusività: «Alcune ragazze abbandonano questo bellissimo sport proprio perché sono costrette a indossare il body, ecco perché questa è un’ottima opzione per tutte per rimanere nello sport che amano e non doversi preoccupare per il loro corpo, concentrandosi solo sulla loro performance».
Ovviamente non tutte le atlete abbandoneranno il body scosciato o il bikini. Ma è proprio questo il bello. La super campionessa americanaSimone Biles, per esempio, ha dichiarato alla Associated Press di preferire il body perché la slancia (è alta un metro e 42) ma ha aggiunto: «Sono d’accordo con la decisione delle tedesche di indossare ciò che le fa sentire a proprio agio. Se una vuole indossare una tuta o un body, dipende solo da lei».

Calzoncini, titoli e piccoli passi

Dietro la richiesta di permettere alle atlete di tutto il mondo la massima flessibilità nella scelta di tessuti e stili delle uniformi non ci sono i centimetri in più o in meno di tessuto. In gioco c’è l’autodeterminazione delle donne e la guerra alla sessualizzazione dello sport. E quelle disparità di trattamento che sotto sono gli occhi di tutti, da sempre, e proprio per questo accettate come qualcosa di normale perché «è sempre stato così».
Conclude la professoressa Suitner: «Queste atlete che hanno avuto la forza, la saggezza e la tenacia di combattere le ingiustizie stanno facendo un favore a tutte noi. Esemplari davvero in molti sensi. Sembra che un paio di calzoncini, come un titolo (sindaca o ministra) siano i problemi minori. I calzoncini o i titoli al femminile sono un passo, ma le atlete lo sanno, per arrivare lontano bisogna iniziare ad allenarsi, bisogna fare un passo e poi un altro. Iniziando da qualche parte. Questa nostra società va allenata con persistenza alla giustizia in tutti i modi, tutti i giorni, in tutte le circostanze. Le scuse a non farlo sono sempre tante, e resistere non è facile. Ma ne vale la pena».