Torino: un giardino per omaggiare Lidia Poët, prima avvocata d’Italia
Corriere della sera – La 27 ora – 6 agosto 2021 – Laura Onofri

L’intitolazione a una donna di un giardino, di una strada o di una biblioteca può essere importante, come ci insegna Toponomastica femminile. A Torino lo si è fatto nei giardini davanti al Palazzo di Giustizia, intitolandoli a Lidia Poët, prima avvocata d’Italia, che ha lottato tutta la vita contro le leggi che non le permettevano di svolgere la professione perché donna, e che alla fine ha raggiunto il suo risultato. È importante conoscere questa storia e il cippo commemorativo, voluto fortemente da tutto il Consiglio dell’Ordine di Torino, presieduto da una donna, l’avvocata Simona Grabbi, ma reso possibile grazie alla determinazione di una sua consigliera, l’avvocata Assunta Confente e dall’Amministrazione della città e dal suo Consiglio, non è solo un ricordo dovuto ad una donna forte e volitiva che sfidò, alla fine del 1800, un mondo molto maschilista, ma un gesto simbolico importante che ricorda alle nuove generazioni da dove siamo partite e quanta strada è stata fatta con l’impegno e la determinazione di donne come Lidia Poët.
Poët: prima donna a chiedere l’iscrizione all’albo degli avvocati
La dottoressa Lidia Poët, decise di chiedere l’iscrizione all’albo degli avvocati, prima donna in Italia a farlo, dopo essere stata la prima a iscriversi alla Facoltà di Giurisprudenza di Torino, aver conseguito brillantemente la laurea nel 1881 (con una tesi sul diritto di voto alle donne, tesi che già faceva capire quanto fosse battagliera e paladina dei diritti delle donne la giovane Lidia) e aver svolto il tirocinio di due anni e superato con il massimo dei voti l’esame abilitativo nel 1883. Sembrava del tutto normale, quindi, alla giovane avvocata di poter essere ammessa all’Albo degli avvocati di Torino perché come ricorda la presidente dell’Ordine degli Avvocati di Torino «la normativa allora vigente, del 1874, non distingueva tra uomini e donne nell’accesso alla libera professione, parlando solo di cittadini che avevano i requisiti stabiliti dalle leggi; e Lidia Poet pensava, giustamente, di averli tutti». L’avvocatura torinese accoglieva infatti l’iscrizione della giovane avvocata e, come sottolinea l’avvocata Confente, «fu una bella pagina , esempio di avvocatura illuminata che con largo anticipo rispetto agli assetti culturali, politici e sociali del Paese credeva nelle donne come soggetti di diritti, nelle loro istanze di parità e uguaglianza, nella loro emancipazione e liberazione da un destino di sottomissione».
Una cultura patriarcale che resiste
La decisione non fu però unanime ed è interessante rileggere le motivazioni, ancora conservate nei verbali dell’epoca, di alcuni consiglieri, che si batterono aspramente per non consentire l’iscrizione: una summa di stereotipi che forse oggi ci fanno sorridere, ma che ci devono anche far riflettere, perché questa cultura patriarcale purtroppo ancora resiste, magari in modo più sottile e infido. Ecco qualche chicca: L’esercizio dell’avvocatura si deve «considerare come una funzione pubblica», osservava il consigliere Chiaves, e non era pertanto «ammissibile né nell’ordine sociale né per i principi che ci governano che una donna indossi la toga la cui importanza scemerebbe e affatto ridicolo sarebbe l’esercizio della professione stessa». Aderiva altro consigliere dicendo che «nessuna legge ha mai pensato di distogliere le donne da quelle ordinarie occupazioni domestiche che loro sono proprie». Fortunatamente prevalse la posizione dei consiglieri che ritenevano che «a norma delle leggi civili italiane le donne sono cittadini come gli uomini e godono di tutti i diritti civili» e che le opinioni dei consiglieri di minoranza fossero, come si legge nel verbale «ormai antiquate» e Lidia Poët venne quindi iscritta all’Ordine degli Avvocati di Torino, prima donna avvocata in Italia.
«Le donne dovranno riflettere se competere con gli uomini sarebbe davvero un progresso e una conquista»
Ma la sua battaglia non era finita perché la Procura Generale e la Corte di Appello l’11 novembre del 1883 annullavano la delibera del Consiglio, inibendo l’esercizio della professione ancora una volta facendo prevalere stereotipi e pregiudizi alle ragioni di diritto: «oggi sarebbe disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano e nelle quali potrebbero essere trattate oltre ai limiti che al sesso gentile si conviene di osservare»; raccomandando che, le donne, «avranno pure a riflettere se sarebbe veramente un progresso e una conquista per loro quello di poter mettersi in concorrenza con gli uomini, di divenirne le uguali, anziché le compagne, siccome la provvidenza le ha destinate».
«Poët: donna intelligente, caparbia, generosa»
Lidia Poët , indomita e determinata , impugnò la sentenza della Corte di Cassazione che respinse nell’aprile del 1884 il ricorso. Ci ricorda l’avvocata Grabbi che la sentenza fu prodiga di complimenti per Lidia Poët, la cui ambizione a divenire avvocato veniva definita commendevole, ma evidentemente non bastava, perché «lo Stato nella sua sociale e politica organizzazione, e l’amministrazione di quanto s’attiene alla cosa pubblica, hanno sempre avuto, e mantengono tuttora per la loro essenza un carattere virile prevalente così manifestamente decisivo, che le donne non vi possono avere una parte attiva troppo estesa». Questa sentenza però non poteva fermare una donna così volitiva. Il ritratto tratteggiato dalla consigliera Confente ce lo conferma: «donna intelligente, caparbia, generosa, appassionata, che pur non potendo esercitare la professione ha lottato, viaggiando in tutta Europa, Parigi, Londra, San Pietroburgo, per sostenere gli ideali in cui credeva: il voto e i diritti delle donne, la difesa delle persone più deboli, degli emarginati, dei minori, il recupero dei detenuti, mostrando di avere idee di straordinaria originalità ed attualità. Non si è data per vinta ed ha partecipato attivamente al Segretariato del Congresso penitenziario internazionale e al Consiglio internazionale delle donne, è stata nominata dal governo francese Officier d’Académie e durante la prima guerra mondiale è entrata nella Croce Rossa, impegno per il quale ha ricevuto una medaglia d’argento». Dovette però aspettare il 1919 con l’approvazione della legge n. 1126 che ammetteva le donne all’esercizio delle libere professioni per poter vedere riconosciuto il suo diritto e, nuovamente prima donna in Italia, si iscrisse all’Ordine degli Avvocati di Torino, a 65 anni, e esercitò la professione fino a tarda età.
Bradwell vs. Illinois
La storia di questa giovane avvocata ci permette di riflettere sul lungo cammino percorso dalle donne «tra parità e differenza» come ha ben evidenziato l’avvocata Cesarina Manassero, presidente del Comitato Pari Opportunità dell’Ordine degli avvocati che ricorda che casi analoghi ci furono anche negli Stati Uniti sempre alla fine del 1800 e che ci fanno capire quanto gli stereotipi e i pregiudizi della forte cultura maschilista del tempo fossero preponderanti rispetto alle considerazioni di tipo giuridico nelle decisioni di queste controversie. Come nel caso Bradwell vs. Illinois, deciso nel 1872, Myra Bradwell chiese di essere autorizzata a esercitare la professione di avvocata; tale autorizzazione le fu negata perché «la naturale timidezza e delicatezza delle donne da un lato e le esigenze della famiglia dall’altro impediscono che una donna possa intraprendere la carriera dell’avvocato».
Sono meno del 10% le avvocate con uno studio proprio
O nel caso In Re Lockwood, del 1894, Belva Lockwood chiese di essere ammessa alla pratica legale presso la Corte d’Appello della Virginia. La Corte rigettò la richiesta argomentando che la parola «person» presente nella legge Code Virginia 1887, 3192 relativa all’esercizio della professione di avvocato, si riferiva soltanto agli uomini. Ed è ancora l’avvocata Manassero che ci fa riflettere sul percorso delle donne nell’avvocatura che a un primo sguardo potrebbe farci pensare, soffermandoci solo ai dati numerici, che il cammino abbia condotto a una sorta di reverse discrimination, dato che nella fascia di età compresa tra i 35 ed i 45 anni le avvocate sono in netta maggioranza rispetto agli avvocati. I problemi invece permangono e il rapporto Censis sull’Avvocatura italiana, pubblicato nel marzo 2021, ha evidenziato che le avvocate titolari di uno studio proprio sono pochissime (meno del 10%); che quelle operanti in settori del diritto tradizionalmente più redditizi, quali diritto societario, immobiliare o bancario sono una ristretta cerchia e così anche per le avvocate Cassazioniste.
Nella Cassa forense permane la discriminazione
Rispetto agli organi istituzionali dell’Avvocatura, quali i Consigli dell’Ordine, i Consigli distrettuali di disciplina si registrano alcuni passi avanti determinati da meccanismi di azioni positive, mentre dove questi meccanismi non esistono, come nella Cassa Forense, la discriminazione permane in modo molto significativo. Si pensi che nel Comitato dei Delegati, insediatosi il 18 gennaio del 2019, su 83 componenti solo 16 sono avvocate. Nel Consiglio di Amministrazione vi sono solo due avvocate; nella Giunta esecutiva come componenti effettivi nessuna avvocata è presente. Questa storia è paradigmatica e ci insegna quanto sia importante l’impegno anche della singola persona perché i cambiamenti si possano realizzare e che per conquistare una reale parità dobbiamo continuare ad adoperarci su due fronti: il cambiamento di una mentalità ancora oggi troppo maschilista e proseguire nella strada delle azioni positive per l’eliminazione di ogni tipo di discriminazione.
Laura Onofri è giurista, presidente dell’Associazione Se Non Ora, Quando? di Torino. È stata consigliera comunale dal 2012 al 2016 del Comune di Torino e presidente della Commissione Diritti e Pari Opportunità.