martedì, Dicembre 3, 2024
Alle radici della disuguaglianza

in.Genere  3  ottobre 2024   di Giulia Barile e Gemma Gentile

Perché il presente ha bisogno dell’economia femminista per superare guerre, violenza, povertà e disuguaglianze. Lo abbiamo chiesto a Jennifer Olmsted, Economista della Drew University che nei suoi studi interseca uno sguardo femminista con l’economia dello sviluppo, i mercati del lavoro, le migrazioni e le conseguenze economiche dei conflitti politici

Le condizioni di sopraffazione subite dalle donne nei conflitti armati vengono socialmente ignorate. Lo stesso Global Peace Index, nel suo ultimo rapporto, non riporta i dati sulla violenza sessuale di genere durante le guerre. Allo stesso tempo, a livello globale, il lavoro di cura svolto principalmente dalle donne viene ancora dato per scontato nonostante rappresenti un pilastro fondante per l’economia capitalista. 

A queste condizioni, per poter garantire una giustizia sociale, soprattutto nei paesi marginalizzati, è essenziale adottare politiche economiche femministe. Ne è convinta Jennifer Olmsted, Economista della Drew University (New Jersey) che ha preso parte alla trentaduesima conferenza annuale della International Association for Feminist Economics (Iaffe), tenutasi a Roma dal 3 al 5 luglio 2024 e di cui inGenere è stata media partner.

 

Jennifer Olmsted
Jennifer Olmsted (Credit: drew.edu)

Nella sua ricerca, Olmsted interseca uno sguardo femminista con l’economia dello sviluppo, i mercati del lavoro, le migrazioni e le conseguenze economiche dei conflitti politici, ponendo l’attenzione su come questi fattori influenzino differentemente la vita di uomini e donne, amplificando le discriminazioni che queste ultime subiscono anche in altri ambiti sociali.

Il suo intervento alla conferenza si è concentrato sulla militarizzazione e sugli effetti della globalizzazione nei paesi del Medio Oriente. Le abbiamo rivolto alcune domande.

Perché il nostro presente ha fortemente bisogno di un’economia femminista?

Perché c’è ancora molto da fare per vedere realizzata l’uguaglianza di genere nel mondo. Per raggiungere questo obiettivo non è sufficiente limitarsi a studiare solo le donne e le discriminazioni di genere, ma è necessario analizzare le sfide strutturali della società che scaturiscono da ogni tipo di diversità: dall’etnia, dalla classe sociale, dall’orientamento sessuale. Comprendere come la matrice di genere sia la causa principale delle disparità tra uomini e donne è essenziale, ma concentrarsi solo su questo aspetto può far passare in secondo piano molti dei problemi di disuguaglianza e sfruttamento che si verificano nel mondo, ed è quindi importante integrare anche una prospettiva intersezionale nelle politiche economiche femministe. Penso che Iaffe stia offrendo proprio un’occasione per portare alla luce queste problematiche e riflettere sull’intersezionalità delle discriminazioni sistemiche che subiscono le donne, e su come queste ingiustizie sociali modifichino le strutture interne della società.

 

In che modo il Medio Oriente può rappresentare una lente di osservazione significativa in questo processo? 

Il Medio Oriente è teatro di molti cambiamenti. Uno dei principali riguarda l’aumento del numero di donne che entrano nel mercato del lavoro. Tuttavia, si tratta di un territorio ancora scosso dalla guerra, motivo per il quale molte delle mie ricerche si concentrano sull’impatto sociale ed economico dei conflitti armati nell’area cosiddetta “Mena”.[1] Non bisogna però pensare a questa situazione come a un caso isolato, poiché si tratta di un problema globale: non si può disconnettere la questione mediorientale dal resto del mondo, dove ancora oggi non si è raggiunta una parità di diritti per tutte le categorie discriminate.

Come vede l’evoluzione del ruolo delle donne nell’economia del Medio Oriente nei prossimi anni?

Non sarà un processo lineare: alcuni paesi potrebbero raggiungere risultati importanti nei prossimi anni, ma ci sono molte sfide da tenere in considerazione, come la crisi in Siria, e la devastante condizione in cui si trova Gaza. A oggi, non è chiaro se Gaza sarà in grado di riprendersi nel prossimo futuro. C’è una crisi che porta le persone rifugiate di guerra, che già vivevano in condizioni precarie prima del conflitto, a diventare sfollate, senza una casa, un lavoro e una stabilità economica. D’altra parte, è difficile parlare della regione mediorientale come di un tutt’uno. Pensiamo anche ai paesi del Golfo, che sono alcuni tra i più ricchi del mondo: ci sono donne agiate che vivono al pari delle donne occidentali e donne che devono affrontare quotidianamente sfide importanti per affermare la loro libertà. La radice di questa disuguaglianza va ricercata alle origini del colonialismo. Dobbiamo affrontare le discriminazioni che sono nate allora per assicurarci che le condizioni di vita delle donne nel Medio Oriente possano migliorare.

Durante il suo intervento è emerso come gli uomini abbiano più probabilità di morire per atti violenti durante un conflitto, mentre le donne soffrono più frequentemente le conseguenze scaturite dalle guerre come carenze o distruzione di infrastrutture, epidemie o carestie. Se consideriamo la guerra come la massima espressione della violenza maschile, le donne possono essere considerate doppiamente vittime dei conflitti armati?

Gli uomini che vengono uccisi in guerra sono sicuramente vittime, non si può dire che non lo siano. La guerra è dannosa per tutti, tranne che per i produttori militari: distrugge le società. Le uniche persone che vincono sono i criminali, che in realtà prolificano nel contesto della guerra, approfittando della situazione. Ma non penso che si possa dire che le donne siano le uniche vittime. Tutti soffrono. Prendiamo per esempio il tema dell’istruzione: in condizioni di pace, a volte i ragazzi hanno maggiori possibilità di studiare rispetto alle ragazze, ma una volta che la guerra inizia, sia i ragazzi che le ragazze soffrono la mancanza di istruzione. In guerra abbiamo tutti qualcosa da perdere.

In che senso la produzione di armi è una questione di genere?

Gran parte della forza lavoro coinvolta nel settore militare è di sesso maschile. Inoltre, a trarre profitto dai conflitti sono soprattutto i gestori delle aziende impegnate nella fabbricazione di arsenali bellici. Il patriarcato e il militarismo vanno molto d’accordo, e fanno parte dello stesso sistema. Insieme creano le condizioni oppressive che ogni giorno cerchiamo di fronteggiare, sono inscindibili.

Sarebbe meglio se le donne fossero coinvolte nella produzione militare?

È una bella domanda. Alcune femministe dicono di no, le donne non dovrebbero, e alcune femministe dicono di sì. Io sono per la pace, credo che la soluzione migliore sia diminuire il numero di militari in generale, e non incorporare più donne nell’esercito.

Come può essere riorganizzata l’economia tradizionale per includere spazi femministi?

Durante il mio intervento alla conferenza di Iaffe ho parlato di militarismo, ma ritengo che per riorganizzare l’economia tradizionale affinché includa spazi femministi sia necessario ripartire dal lavoro di cura. Dobbiamo riconoscere che un aspetto fondamentale della società è crescere le generazioni future. È il lavoro più importante che facciamo, eppure non viene valorizzato. Le femministe, e in particolar modo le economiste, si sono concentrate sul mostrare come il lavoro di cura sia il centro di tutte le economie. È la ragione per cui non avremmo lavoratori se non avessimo le donne a occuparsi gratuitamente di tutto il lavoro di accudimento e assistenza. Il capitalismo dipende dal lavoro non retribuito delle donne e l’economia deve iniziare a riconoscergli il giusto peso.

Note

[1] Sigla di Middle East and North Africa, locuzione con cui si indica l’ampia area che, attraversando l’Africa nord-occidentale, si estende tra il Marocco a ovest e l’Iran, comprendendo i territori di Algeria, Bahrain, Gibuti, Egitto, Iran, Iraq, Israele, Giordania, Kuwait, Libano, Libia, Malta, Marocco, Oman, Qatar, Arabia Saudita, Siria, Tunisia, Emirati Arabi Uniti, Cisgiordania, Ghaza e Yemen.

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