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Che sia un 8 marzo di lotta, non di celebrazione. Soprattutto per gli ostacoli alla legge 194

Blog Il Fatto Quotidiano – 7 marzo 2024     Laura Onofri

Sono molte e diverse le ricostruzioni per cui si è scelto l’8 marzo per celebrare la Giornata internazionale dei diritti delle donne. Quello che è sicuro è che le Nazioni Unite dedicarono una Giornata alle donne per sottolineare l’importanza della lotta per i loro diritti e ricordare i loro progressi in ambito economico, politico e culturale, raggiunti in modi e tempi diversi dalle donne di tutto il mondo.

Prima che diventasse Giornata internazionale per iniziativa delle Nazioni Unite nel 1975, in Italia si svolsero varie celebrazioni: dal 1922 fino ad arrivare alla grande manifestazione dell’8 marzo 1972 a Campo de’ Fiori a Roma, in cui una grande moltitudine di donne rivendicava i propri diritti, tra cui la legalizzazione dell’aborto.

Se ci voltiamo indietro non possiamo non affermare che le leggi, conquistate con le lotte di tante attiviste, hanno trasformato, negli ultimi 50 anni, la vita delle donne. E gli anni Settanta e Ottanta sono stati i più forieri di questi cambiamenti e progressi. Pensiamo che nel 1963 cessano le “clausole di nubilato” (che prevedevano il licenziamento in caso di matrimonio) e tutte le professioni e gli impieghi pubblici si aprono definitivamente alle donne. Nel 1968 l’adulterio femminile termina di essere un reato e nel 1971 la Corte Costituzionale cancella la punibilità per la propaganda di anticoncezionali, sino ad arrivare al 1978 alla legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza.

A cercare di sgretolare la società patriarcale, in cui era considerato assolutamente normale il predominio del padre sulla famiglia in ambito domestico, e in generale tutto il potere economico, politico e sociale nelle mani degli uomini, nel 1975 entra in vigore il nuovo diritto di famiglia che stabilisce la parità tra i coniugi, abolendo quindi la figura del capofamiglia (che rimane solo ai fini anagrafici), stabilendo pari diritti e doveri per le donne sposate e la possibilità di utilizzare il proprio cognome senza aggiungere quello del marito. Solo nel 1977 è riconosciuta la parità di trattamento tra donne e uomini nel campo del lavoro, ma bisogna aspettare il 1981 per vedere abrogato il delitto d’onore.

Potrei andare avanti citando tante altre leggi varate anche nei decenni successivi per cercare di arginare e contrastare le molte discriminazioni. Perché è a colpi di leggi e di lentissimi cambiamenti culturali della società che siamo arrivate nel nuovo secolo convinte che prima o poi il patriarcato sarebbe stato sconfitto.

Ma è andata proprio così?

Purtroppo siamo consapevoli che ancora oggi è il patriarcato alla base della violenza di cui sono vittime le donne. Noi lo stiamo ripetendo da decenni, ma ora sembra che ne siano consapevoli anche le nuove generazioni che in massa sono scese in piazza dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, e giornali e televisioni in cui questa parola compare sempre più spesso. Forse però a non rendersene conto sono i decisori politici, che non si adoperano per superare il patriarcato promuovendo un’educazione all’affettività e alla parità sin dalla primissima infanzia, una formazione per demolire pregiudizi e stereotipi, leggi che sanciscano che un no è un no in qualsiasi relazione intima: perché non sia stupro non basta il silenzio, ci deve essere un assenso chiaro da parte della donna.

Ma non è solo sulla violenza che il patriarcato si riflette. Questo sistema sociale, in cui gli uomini detengono il potere, è strettamente connesso con l’autodeterminazione delle donne.

L’aborto è una delle scelte più peculiari in cui le donne esprimono la loro autodeterminazione: stabilire se interrompere la gravidanza, nei primi 90 giorni, spetta alla donna, solo a lei, senza interferenze, perché sul suo corpo è lei che decide. Libertà di scelta che sfugge al controllo maschile e quindi è osteggiata, contrastata, combattuta da chi vuole espugnare quel baluardo che dal 1978 assicura alla donna che la sua autodeterminazione è garantita.

In questi ultimi anni gli attacchi a questa libertà sono però tanti e continuano ad ampliarsi: non potendo abrogare la legge, perché sarebbe un atto incredibilmente impopolare, una certa politica sovranista e illiberale dissemina di ostacoli il percorso per arrivare a indebolirla, a rendere estenuante e faticoso l’iter per riuscire ad abortire. Molti di questi impedimenti e freni, che non trovano riscontro nella legge, sono stati elencati e approfonditi dalla guida IVG senza MA – La tua scelta zero ostacoliun vademecum frutto del lavoro collettivo di attiviste, giuriste, ginecologhe e antropologhe per creare consapevolezza nelle donne dei loro diritti e disvelare i disservizi, i soprusi e l’abbandono istituzionale che è sempre più imperante quando si parla di Ivg.

Non si abroga la legge, dicevamo, ma si presentano proposte di legge per far ascoltare il battito del feto con lo scopo di turbare le donne che scelgono di abortire, o quella per riconoscere la capacità giuridica del concepito che porterebbe di fatto ad un rischio penale per chi pratica l’aborto volontario e per chi lo esegue. Si introducono provvedimenti per collocare stanze d’ascolto negli ospedali o nei consultori dove si cerca di convincere le donne a rivedere la loro scelta affidandone la gestione alle associazioni antiabortiste, come sta avvenendo a Torino dove è pendente un ricorso al Tar, presentato da Cgil e SeNonOraQuando?Torino, contro la delibera che la istituisce all’Ospedale Sant’Anna.

Non si pone rimedio al grave problema dell’obiezione di coscienza che, in alcune regioni come l’Abruzzo, di fatto impedisce di interrompere la gravidanza nelle strutture del territorio obbligando le donne a emigrare in altre regioni. Si ospita alla Camera dei deputati un convegno, promosso dalla Lega, in cui si sostiene che l’aborto non deve essere considerato un diritto ed è immorale anche in caso di stupro. Si permette alle associazioni antiabortiste di esporre cartelloni, in tutte le città, in cui la pillola abortiva è definita falsamente un veleno, o altri di una odiosa violenza psicologica in cui si mostrano immagini di feti in età gestazionale avanzata, quando invece nelle prime settimane non c’è altro che un semplice raggruppamento di cellule, con il chiaro intento di colpevolizzare le donne e di colpire l’inconscio collettivo e l’immaginario di tutti e tutte. Campagne costruite e manipolate in modo tale da elicitare, in chi le vede, un’associazione simbolica con l’uccisione di un essere umano.

Se oggi, a fronte di tutti questi attacchi, la scelta di interrompere una gravidanza in modo libero e sicuro è ancora possibile, lo dobbiamo alle attiviste, alle ginecologhe pro-choice, ai gruppi di mutuo auto aiuto che assistono le donne, on line su varie piattaforme, a superare questi ostacoli e questi disservizi. La continua offensiva all’autodeterminazione delle donne, la lesione dei loro diritti, questo clima opprimente che si respira grazie a una politica che restringe gli spazi di scelta e di libertà, ci ordinano, oggi più che mai, che questo 8 marzo sia un giorno di lotta e non di celebrazione.

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