Blog Il Fatto quotidiano – 22 settembre 2024 Laura Onofri
Il coraggio di Gisèle Pelicot di celebrare a porte aperte il processo che vede accusato l’ex marito Dominique, accusato di averla sedata e fatta violentare da oltre 50 uomini, ha avuto un’eco mediatica enorme in Francia e in tutto il mondo. A Parigi, Marsiglia, Bordeaux e Strasburgo e in tante altre città si sono svolte manifestazioni che hanno coinvolto migliaia di persone, che hanno voluto dare solidarietà a questa donna di 72 anni che, oltre ad aver denunciato il marito e gli altri stupratori, si è opposta a un processo a porte chiuse per far conoscere la sua storia, ma soprattutto per attirare l’attenzione dei media su quella che viene chiamata rape culture – “la cultura dello stupro” – e sulla mancanza di una legge organica sulla violenza contro le donne, in Francia e in quasi tutti gli Stati europei, che preveda che si configuri il reato di stupro quando c’è un rapporto sessuale senza consenso e che sottolinei che il silenzio o l’assenza di un “no” non equivalgono al consenso.
L’occasione ideale perché gli Stati finalmente inserissero questo principio, che tutela le donne e che le convince a denunciare senza il rischio di non essere credute e di dover sostenere l’onere della prova, sarebbe stata la Direttiva europea sulla violenza contro le donne approvata dal Parlamento europeo il 24 maggio di quest’anno, ma proposta dal Consiglio europeo (cioè i governi degli Stati membri) che ha stralciato l’art. 5 della bozza originaria liberata dalla Commissione, che prevedeva appunto la definizione di stupro come rapporto sessuale non consensuale (così come previsto dalla Convenzione di Istanbul) e che, nel suo insieme, l’ha approvata ridimensionata e indebolita rispetto al testo varato nel 2022 dalla Commissione.
Perché è importante che questo principio venga recepito dagli ordinamenti? Perché in tutto il mondo, e sicuramente anche in Italia, persistono odiosi stereotipi che addebitano alla donna la responsabilità della violenza. Frasi come “era vestita in modo provocante”, “era ubriaca”, “non ha gridato”, che purtroppo ritroviamo anche nelle sentenze di processi che riguardano la violenza sessuale, sono frasi che “normalizzano” la violenza e la giustificano, spostando il focus da chi commette la violenza alla vittima, colpevolizzandola, e vogliono dire “con questi tuoi atteggiamenti te la sei cercata”. E’ quello che sta accadendo in questi giorni anche a Gisèle Pelicot (che tra l’altro ha voluto mantenere il nome del marito sino alla fine del processo), che ha dichiarato: “Ora basta, ho l’impressione di essere io la colpevole”. Ed è proprio per questo, per paura di passare da vittima a colpevole, che tante donne non denunciano.
Agire sugli stereotipi è fondamentale e ne abbiamo maggiore consapevolezza leggendo questi dati tratti da un interessante articolo su State of mind di Ilaria Sarmiento, Gli aspetti psicologici della violenza sessuale: effetti dello stupro sulle vittime: “…per la maggior parte dei soggetti si può parlare di violenza sessuale quando vi sia stato uso della forza o intimidazione attraverso un’arma, mentre solo il 58% ritiene che basti l’opposizione di un dissenso verbale perché un rapporto sessuale venga considerato un caso di violenza. In merito a questo aspetto le donne si dimostrano più sensibili, infatti si discostano dagli uomini di venti punti percentuali (F = 67,6; M = 47,5) anche se nella valutazione della storia non risultano apportare un giudizio significativamente diverso da quello degli uomini. Un altro dato significativo è che il 45% dei soggetti non ritiene che si possa parlare di stupro tra coniugi; in Italia fino al 1976 questa possibilità non era contemplata neanche dal nostro sistema giuridico. Con sentenza del 16 febbraio 1976 la Corte di Cassazione non solo stabilisce che il coniuge non può pretendere con la forza il soddisfacimento della concupiscenza sessuale, ma anche che ‘…il delitto di violenza carnale sussiste non solo quando vi sia una lotta strenua, capace di lasciare segni sulla vittima, ma anche quando questa si sia concessa solo per porre termine ad una situazione per lei angosciosa e insopportabile, poiché tale consenso non è libero consenso, bensì consenso coatto…’.”
Come dicevo, la Convenzione di Istanbul è molto chiara su questo punto: “Il consenso deve essere dato volontariamente come libera espressione della volontà della persona”. Il consenso quindi va chiesto sempre, in qualsiasi rapporto sessuale; è reversibile, specifico e non può essere ottenuto sotto pressione o forzatura o manipolazione psicologica.
Purtroppo il nostro codice penale non ha recepito le indicazioni della Convenzione e individua la fattispecie del reato di violenza sessuale all’art. 609 bis del codice penale che recita “Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni”; di consenso quindi non si parla. Basterebbe veramente poco per cambiare un articolo del codice. Ci stanno provando sia Laura Boldrini che Valeria Valente, che hanno presentato due proposte di legge per la modifica dell’art. 609-bis del c.p. rispettivamente alla Camera e al Senato, modifica che prevede l’esplicito richiamo al consenso.
Possiamo sperare che la discussione di queste proposte di legge, che si sostanziano solo nella modifica di un articolo, venga calendarizzata in tempi accettabili e che si arrivi in breve tempo ad approvarle? Possiamo sperare che le tante parole che si spendono da parte delle istituzioni per il contrasto alla violenza contro le donne intorno al 25 novembre si concretizzino in una rapida modifica di quell’articolo che incide anche a livello culturale? Possiamo sperare che una volta tanto prevalga la difesa dei diritti di chi è vittima e che non la si sacrifichi, come è successo per la Direttiva europea sulla violenza contro le donne, agli interessi dei singoli Stati, a bieche strategie elettorali e alla salvaguardia del patriarcato, retaggio non sradicato della nostra cultura e vera radice della violenza contro le donne?
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