Internazionale – L’Essenziale 1 febbraio 2023 – Annalisa Camilli
Stigma, tabù, opportunismo, una bassa remunerazione, concorsi deserti, mancanza di formazione, l’opposizione della politica: perché in molte regioni la legge 194 del 1978, che ha depenalizzato l’aborto, è ancora inattuata
All’ospedale civile dell’Annunziata di Cosenza, in Calabria, i ginecologi sono tutti obiettori di coscienza. Nell’ospedale calabrese l’interruzione di gravidanza è possibile solo due volte alla settimana quando è presente il medico “a gettone” che pratica l’ivg. “A più di sei mesi dalle dimissioni dell’unico ginecologo non obiettore dell’Annunziata, il servizio è ancora carente e procede a singhiozzo”, spiegano le attiviste del collettivo cosentino Fem.In che a dicembre hanno incontrato la direttrice amministrativa dell’ospedale, ottenendo la promessa di stipulare una convenzione per avere altri due medici a contratto e garantire il servizio sul territorio.
Ma “questo a oggi non si è ancora verificato e a svolgere il servizio c’è un solo medico”, scrivono le attiviste sulla loro pagina Facebook. Sul caso ha presentato un’interrogazione parlamentare la deputata Anna Laura Orrico, il 18 gennaio.
L’ospedale di Cosenza non è un caso isolato in Italia: secondo la relazione del ministero della salute presentata nel 2022, il 64,6 per cento dei ginecologi italiani era obiettore di coscienza nel 2020, un tasso in leggera diminuzione rispetto al 2019, mentre erano obiettori il 44,6 per cento degli anestesisti e il 36,2 per cento del personale non medico.
Tuttavia il report Mai dati dell’associazione Luca Coscioni, curato da Chiara Lalli e Sonia Montegiove (diventato un libro nel 2022), chiarisce che la situazione in alcune zone del paese è ancora peggiore, perché i dati della relazione ministeriale non sono aggiornati. Secondo il report, in Italia sarebbero 72 gli ospedali che hanno tra l’80 e il 100 per cento di obiettori di coscienza tra il personale sanitario; ventidue gli ospedali e quattro i consultori con il 100 per cento di obiettori tra tutto il personale sanitario, 18 gli ospedali con il 100 per cento di ginecologi obiettori e infine 46 le strutture che hanno una percentuale di obiettori superiore all’80 per cento.
Medici di serie b
Così, di fatto, a 45 anni dall’approvazione della legge che ha depenalizzato l’aborto in Italia entro il terzo mese di gravidanza, il tasso di obiezione tra i medici e il personale sanitario è talmente alto da rendere problematica o impraticabile l’interruzione di gravidanza in molte zone del paese: le donne che vogliono ricorrere all’ivg faticano a trovare informazioni, devono aspettare molto tempo per abortire oppure sono costrette a spostarsi in un’altra regione per fare l’operazione.
Dall’indagine di Lalli e Montegiove, basata su richieste di accesso civico generalizzato alle regioni, emerge che il Molise è la regione con la più alta percentuale di obiettori: su due strutture ospedaliere in totale, una ha tutti i medici ginecologi obiettori, mentre nell’altra sono obiettori otto medici su dieci. Seguono la Puglia – su 35 ospedali otto sono con obiezione al 100 per cento – e le Marche, dove in due strutture ospedaliere (Fermo e Jesi) tutti i medici sono obiettori.
In Molise l’ivg si pratica solo nell’ospedale di Campobasso e l’unico medico non obiettore della regione, Michele Mariano, è stato diverse volte costretto a rimandare la pensione, perché ai concorsi indetti per la sua sostituzione non si presentava nessuno. Secondo Mariano la maggior parte dei colleghi è obiettore “perché chi fa aborti non fa carriera: trovatemi un primario che ne faccia. In Italia c’è la chiesa, e finché ci sarà il Vaticano che detta legge il problema ci sarà sempre. E poi perché la maggioranza dell’opinione pubblica – e dei colleghi – considera chi pratica l’ivg come qualcuno da mettere da parte, ginecologi di serie b, che fanno qualcosa di brutto”.
Anche secondo Marina Toschi, ginecologa dell’Aied, il problema è soprattutto il giudizio legato all’aborto: “La difficoltà di accedere all’aborto in zone come le Marche è legato a diversi fattori, ma in primo luogo allo stigma che ancora circonda i medici che praticano l’ivg. Spesso i ginecologi non obiettori si trovano a fare solo aborti, con un carico di lavoro molto alto, senza una remunerazione adeguata e subendo il discredito ancora legato a queste operazioni. Molti pensano: chi me lo fa fare?”, commenta Toschi, che una volta ogni tre settimane andava all’ospedale di Ascoli Piceno per eseguire interventi di interruzione di gravidanza. Ma dal 31 gennaio 2023 la convenzione con l’Aied è stata revocata, dopo 42 anni, senza che sia stato chiarito come sarà garantito il servizio.
“I veri obiettori sono i direttori sanitari e quelli generali che non applicano la legge e, per esempio, lasciano un ospedale come quello di Fermo senza servizio di ivg”, continua Toschi, secondo cui esiste anche una carenza di personale sanitario: “I ginecologi in generale sono pochi e servirebbero più assunzioni di medici non obiettori”, aggiunge.
Inoltre, aggiunge la ginecologa dell’Aied, c’è un problema di formazione professionale: “Manca la formazione sul tema dell’ivg, ma anche sulla contraccezione. Questi argomenti sono ancora un grande tabù nelle università italiane, in particolare in quelle cattoliche. All’università s’insegna poco o niente come si usano i farmaci come il misoprostolo (un farmaco abortivo) o come s’inseriscono le spirali per la contraccezione, nonostante siano indicate dall’Organizzazione mondiale della salute (Oms) come i migliori contraccettivi”, continua. A riprova di questo, “le linee di indirizzo del ministero della salute che prevedono che le pillole abortive (Ru486) siano somministrate nei consultori non sono state adottate da molte regioni anche per mancanza di formazione degli operatori”. Per questo secondo le attiviste del collettivo marchigiano Sisters on the block, molte donne sono ancora costrette a spostarsi in altre regioni come l’Emilia Romagna per abortire.
Irene Cetin, docente di ostetricia e ginecologia all’università degli studi di Milano e primaria di ginecologia dell’ospedale Buzzi di Milano, osserva che per molti ginecologi il problema è legato al carico di lavoro e alla ripetitività delle operazioni di interruzione di gravidanza: “Come primario le posso assicurare che il problema organizzativo si presenta quando in un reparto c’è un tasso superiore al 50 per cento di medici obiettori. In quel caso il lavoro per i non obiettori diventa rilevante. Dal punto di vista professionale, occuparsi solo di ivg è penalizzante nella crescita, anche perché è un’operazione semplice”.
Secondo Cetin, che è una medica non obiettrice e fa parte della Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo), nel sistema sanitario italiano “bisogna essere molto motivati per continuare a essere non obiettori, soprattutto se in una struttura gli obiettori sono la maggioranza”.
Gli obiettori
Paolo Rollo, medico obiettore e primario di ginecologia dell’ospedale Cannizzaro di Catania, sostiene che l’obiezione di coscienza della totalità dei medici del suo reparto non impedisce all’ospedale di fornire il servizio d’interruzione di gravidanza in maniera regolare. Rollo, ginecologo dal 1985, ritiene giusto che nella legge italiana ci sia un articolo che consente ai medici di non praticare aborti per ragioni personali e di natura etica.
“Non ci deve essere nessuno stigma, né sugli obiettori né sui non obiettori. L’importante è che il servizio sia garantito, questo ci chiede lo stato. A prescindere dall’organico, l’applicazione della legge 194 deve essere garantita”, afferma Rollo, secondo cui non ci sono liste di attesa nel suo ospedale per chi vuole abortire nei termini stabiliti dalla legge. “Abbiamo un medico non obiettore a contratto per tre anni, per assicurare il servizio dell’interruzione di gravidanza nel nostro reparto. Non c’è nessuna lista di attesa, le donne possono venire in ambulatorio il giovedì, anche senza prenotazione”, afferma. Per il primario non dovrebbero esserci ospedali che non garantiscono questo servizio, anche nel caso in cui tutti i medici del reparto siano obiettori, perché dovrebbero intervenire i dirigenti sanitari e attivare dei contratti ad hoc per svolgere questo tipo di operazioni o delle convenzioni con strutture in cui il servizio è garantito.
È della stessa opinione Mario Meroni, primario del reparto di ginecologia dell’ospedale Niguarda di Milano, obiettore di coscienza: “Il diritto della donna di poter effettuare un’interruzione volontaria di gravidanza non deve scontrarsi con il diritto dei medici di avere le proprie idee: nell’ospedale pubblico dobbiamo tutelare i diritti di tutti. Al centro ci deve essere la donna. Ma questo può essere risolto lavorando insieme ai consultori e organizzando il lavoro in maniera adeguata”. Secondo Meroni, “non è vero che se il dirigente è obiettore considererà il servizio d’interruzione di gravidanza come di serie b”, né che i ginecologi obiettori siano favoriti nella carriera. “A Milano io sono l’unico primario obiettore, quindi al limite è vero il contrario”, sottolinea.
Il primario sostiene che ci sia una questione anche anagrafica sull’obiezione di coscienza: “I ginecologi più giovani sono quasi tutti non obiettori, perché culturalmente percepiscono l’interruzione di gravidanza in maniera diversa. Mentre la vecchia guardia ha ragioni di ordine personale, spesso legate a motivazioni etico-religiose”.
Nell’ospedale Niguarda di Milano ci sono otto non obiettori su 22 medici: “Ci sono stati momenti in cui avevo solo due non obiettori, ma anche in queste condizioni è possibile garantire il servizio”, ribadisce Meroni, che come Rollo suggerisce che primari e dirigenti sanitari dovrebbero in questi casi collaborare con i consultori e stipulare convenzioni con altri ospedali per attuare pienamente la legge 194.
Nessuna informazione e pochi dati
Ogni anno arrivano decine di testimonianze e di denunce alle associazioni che si occupano della piena applicazione della legge, come la Libera associazione italiana ginecologi non obiettori per l’applicazione della 194 (Laiga), l’associazione Luca Coscioni e le attiviste di Obiezione respinta e di Non una di meno. “Nonostante la legge 194 del 1978 sia stata adottata ormai 45 anni fa, non è mai stata fornita un’informazione chiara, pubblica e trasparente sulle modalità di accesso ai servizi di interruzione volontaria di gravidanza e soprattutto sugli ospedali a cui ci si può rivolgere per ricorrere a questo servizio”, spiega la Laiga.
“Questo è particolarmente problematico dato che l’elevatissimo tasso di obiezione di coscienza lascia le donne in balìa della sorte in un momento in cui bisogna agire in fretta per restare nei limiti gestazionali previsti dalla legge. Le donne spesso si muovono per sentito dire, si rivolgono a personale obiettore, perdendo tempo prezioso”, continua la Laiga, che sul suo sito offre una mappatura delle strutture italiane dove è possibile effettuare l’interruzione volontaria di gravidanza, sia farmacologica sia chirurgica.
Filomena Gallo, avvocata e segretaria dell’associazione Luca Coscioni, spiega che “la prima cosa da fare sarebbe aprire i dati, aggiornali, renderli noti e disponibili, in modo da avere una fotografia attuale della situazione al livello regionale e di ogni singola struttura. Ma questo al momento non c’è”. Secondo Gallo in ogni struttura dove sono troppi i medici obiettori bisognerebbe indire dei concorsi per medici prevedendo un 50 per cento di non obiettori e 50 per cento di obiettori, come è avvenuto all’ospedale San Camillo di Roma, perché non garantire il servizio o interromperlo “è un reato”, e “corrisponde a non attuare la legge”.
Molti concorsi di questo tipo, tuttavia, sono bloccati dalla politica. In Liguria per esempio (dove i medici non obiettori sono 59 su 123) la proposta di “valutare la possibilità di procedere all’indizione di uno o più concorsi, nelle strutture ove venga ritenuto più necessario, per l’assunzione di ginecologi non obiettori al fine di garantire la completa attuazione della legge 194/78” è stata bocciata dalla maggioranza di centrodestra nel consiglio regionale il 31 gennaio.
L’associazione Luca Coscioni riceve ogni anno decine di denunce di donne che addirittura raccontano di essere incappate in farmacisti obiettori, che si sono rifiutati di dare loro la pillola del giorno dopo, che è un contraccettivo. “L’obiezione dei farmacisti non è prevista da nessuna legge e le pillole del giorno dopo sono contraccettivi e non farmaci abortivi”, spiega Gallo. “È illegale che i farmacisti si dichiarino obiettori”. Tuttavia, continua l’avvocata, spesso le donne che inizialmente hanno presentato una denuncia per il mancato servizio ricevuto, poi non procedono per via legale: “Una volta che hanno risolto il loro problema, vogliono dimenticare il prima possibile l’esperienza negativa che hanno avuto”.
Una legge con molti limiti
Il diritto del medico, dell’anestesista o del personale sanitario a non operare l’interruzione di gravidanza attraverso l’obiezione è garantito dall’articolo 9 della legge 194 introdotta in seguito a un lungo dibattito parlamentare, che ha depenalizzato l’aborto in Italia entro il primo trimestre di gravidanza e a determinate condizioni per la donna.
“All’epoca si cambiava radicalmente una pratica dei medici ospedalieri pubblici, depenalizzando l’aborto che fino a quel momento era vietato. Così si inserì questo articolo per permettere di obiettare a quelli che avevano scelto di fare quelle professioni prima dell’introduzione della legge e che avevano delle questioni di tipo morale. Si permetteva quindi ai medici di continuare a esercitare la loro professione pur essendo cambiati i loro doveri”, spiega Caterina Botti, docente di filosofia morale ed esperta di bioetica all’università La Sapienza di Roma.
Ma per Botti, il principio dell’obiezione di coscienza è fortemente legato all’impianto della legge, frutto di grandi compromessi politici, che concepisce l’aborto non come “pratica di libertà della donna”, al pari di altre tradizioni giuridiche, ma come “pratica sanitaria a tutela della salute delle donne”.
Secondo la legge, infatti, ancora oggi possono interrompere la gravidanza le donne che certificano “circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la salute fisica o psichica, in relazione o allo stato di salute, o alle condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”.
Botti spiega che l’aborto, secondo la formulazione della legge italiana, non è una scelta della donna, ma “un dovere del medico per tutelare la salute della donna, per questo si permette al personale sanitario di obiettare, di non adempiere cioè a quel dovere per ragioni etiche”.
Quarantacinque anni dopo la sua approvazione, non si può capire questa formulazione della legge se non si considera che all’epoca “è stata frutto di grandi negoziati tra partiti che erano molto reticenti a depenalizzare l’interruzione di gravidanza”, depenalizzazione di cui si discuteva senza risultato dal 1971. Ma proprio in questa prospettiva storica, secondo Botti, oggi quell’articolo che prevede l’obiezione di coscienza “potrebbe essere superato, perché oggi chi sceglie quella professione sa che tra i suoi doveri c’è anche quello di praticare aborti. Chi non vuole farlo potrebbe scegliere un’altra professione, un’altra specializzazione oppure operare fuori del servizio sanitario nazionale”.
La docente di bioetica e di storia della medicina Chiara Lalli, autrice del libro C’è chi dice no. Dalla leva all’aborto, come cambia l’obiezione di coscienza (Il Saggiatore), ha posizioni simili. “L’obiezione di coscienza non dovrebbe essere ammessa per legge”,scrive Lalli nel suo libro. “È spesso usata come un ariete per contrapporsi a diritti individuali sanciti dalla legge, i medici che non vogliono fare aborti per ragioni di coscienza entrano direttamente e personalmente in conflitto con le donne che richiedono quel servizio”, continua la saggista.
“Ammettere che un medico possa fare obiezione di coscienza è una forma di moralismo paternalistico. Si radica nell’idea che il medico sia detentore della verità o di una verità più forte della nostra e che pertanto sappia anche cosa sia il nostro bene e decida di conseguenza”, continua Lalli. “Un medico non può scegliere di fare il medico e poi esercitare questo potere per imporre la propria visione del mondo e per sottrarsi ai suoi doveri”, conclude nel saggio.
Non è sulle stesse posizioni Mirella Parachini, ginecologa, attivista radicale, vicepresidente della Federazione internazionale degli operatori di aborto e contraccezione (Fiapac) e tra i fondatori dell’associazione Luca Coscioni. Secondo Parachini, l’obiezione di coscienza può convivere con il diritto all’aborto. “Non sono contraria all’obiezione di coscienza, perché è presente anche in paesi in cui l’aborto è accessibile come la Francia e il Regno Unito. Permettere l’obiezione di coscienza presenta problemi organizzativi, ma si può conciliare con la garanzia di un accesso rapido: dovrebbe essere la struttura che non fa ivg a informare la donna e addirittura a prenotare l’intervento in strutture in cui l’ivg è praticata. Le donne non dovrebbero trovarsi nella condizione di cercare da sole le strutture o tramite amiche e conoscenti, né dovrebbero aspettare più di due settimane per sottoporsi all’operazione”, continua Parachini, secondo cui un sistema di incentivi anche economici per i medici non obiettori favorirebbe l’attuazione del sevizio.
C’è un dato, infine, che secondo la ginecologa dovrebbe farci riflettere: “Il numero degli aborti è in costante diminuzione in Italia dal 1978, quando la legge è stata approvata. Invece gli aborti clandestini rimangono stabili, secondo la relazione ministeriale, e sono stimati tra i 15mila e i ventimila all’anno. Questo dato, che si conferma anche negli ultimi anni, nasconde un aumento in percentuale degli aborti clandestini nelle aree in cui l’ivg è meno accessibile”. Questo è un altro punto che dovrebbe spingere le istituzioni a garantire l’applicazione della legge su tutto il territorio nazionale.
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